sabato 30 ottobre 2010

Una gnoseologia spiegata dalla bibbia



La prima icona che spiega il processo cognitivo è il racconto della creazione della donna.
Adamo cerca un aiuto e non lo trova nelle realtà dell’universo, ma in un se stesso diverso da sé che è Eva, ovverosia in un altro uomo: nella donna.
Si tratta di un evento con tutte le caratteristiche della idealità. Mentre la conoscenza delle realtà del mondo pur sensibile era insoddisfacente, la conoscenza di se stesso nell’altro uomo ha un significato, con una prima valutazione, concettuale, perché consiste in un aiuto. Questo significato non è l’unico, infatti, l’uomo non vede in lei solamente la convenienza di essere aiutato che non aveva trovato altrimenti, ma anche un altro sé e, nello stesso tempo, un dono di Dio. Adamo, pur incosciente nel sonno riceve un quasi se stesso, degno di sé senza cercarlo e senza pagarlo. Si tratta di un dono, di un aiuto, di un se stesso, di un non altri e non altrimenti: in una parola si tratta di un bene e di una conoscenza ideale e quindi dell’idea di uomo. È la prima idea che l’uomo conosce insieme a quella di Dio e, in questo modo, conosce anche quella dell’universo che lo circonda, che è un quasi-aiuto-cercato, ma che non lo è del tutto, perché non è come quello che ha trovato invece in Eva.
La seconda icona non spiega la conoscenza solo indirettamente presentando di per sé una ‹non-conoscenza›, che è anche una incoscienza. Si tratta di una conoscenza della realtà non ideale, provocata dall’‹astuzia› di una convenienza, non dalla ricezione obiettiva di un dono. È la conoscenza di chi indaga, ma non ama, di chi dubita ma non ha fiducia: di per sé più dubbio che non conoscenza, ovverosia consiste nel riconosere in sé la certezza di non saper amare e quindi l’avvertenza di non poter conoscere. Si tratta della conoscenza di una mancanza, ovverosia del male. E Adamo che non si fida perde un amico che è Dio stesso, non perde l’amicizia di Dio, ma perde sé come suo amico. Per questa ragione non può più parlare con lui senza il bisogno di sussidi, che trova nei vestiti, per non essere nudo e provare vergogna della sua mancanza. In questo modo ha perso una realtà ideale e una conoscenza delle idee. Tra lui e la realtà c’è un divario: un vestito che la copre e che permette per un verso di vederla, ma che per un altro verso riesce a nasconderla. È la conoscenza sulla base di un ordine scelto ad arte – non un ordine, ma una convenzione – ma non accolto del tutto nell’‹amicizia-conoscenza-coscienza› spontanea delle virtù.
La terza icona-realtà è quella della Madonna che all’annuncio dell’angelo afferma di non conoscere uomo. Non si tratta di una bugia, ma della confessione di una realtà. Maria conosceva Giuseppe promesso sposo, ma non era una conoscenza ideale, in un certo senso era una non-conoscenza concreta ed effettiva, mancava la chiarezza e la purezza originale del dono di Dio. Per questo Maria aveva già rifiutato una conoscenza dell’uomo non ideale, ma nello stesso tempo riceve la rivelazione di un ristabilimento ed una ricostruzione della idealità nell’uomo Gesù. Dio, che con il peccato di Adamo aveva perso un amico ideale, per ritrovarlo ideale e amico, lo doveva ricostruire e, non trovandolo, lo ha ‹ri-creato› non più usando il fango, ma servendosi di se stesso. Si tratta della nuova creazione della realtà ideale che produce in Maria la conoscenza-riconoscenza della idealità e delle idee nella realtà di quell’altro uomo al quale lei stessa aveva dato la sua carne. La ricostruzione della idealità ‹uomo› e la conoscenza ideale ricostruita dell’uomo è sempre quella di un uomo perfetto, ovverosia senza confronti e senza uguali, che non cerca aiuto da alcuno, ma che è in se stesso di aiuto a tutti. È Gesù che si fa aiutante per ridare ad ogni uomo la sua stessa idealità dell’aiutare. L’uomo che ama, che aiuta concretamente ricostruisce con ‹Gesù-uomo-ideale› la nuova creazione, perché conosce e riconosce la realtà delle idee e non si ferma alla conoscenza esteriore delle apparenze sensibili ed al significato concettuale delle convenzioni e dell’utilitarismo.
Nella bibbia non ci sono solamente immagini che spiegano, ma realtà concrete di Dio, anche se, per essere comprensibili, si possono considerare come icone visibili. Come la conoscenza della realtà ideale è impossibile senza le virtù, una lettura della bibbia –sempre senza le virtù – non spiega a sufficienza, perché è stata scritta per illustrare le idealità e una conoscenza eidetica senza l’aiuto delle virtù è impossibile.

giovedì 21 ottobre 2010

Il Dio di Aristotele

Appunti su un testo di Hirschberger


La lettura dell’esposizione di  Aristotele sul testo di Hirschberger (Geschichte der Philosophie) è stata l’occasione per riflettere sulla metafisica e in particolare su Dio. Ho cercato di scrivere quei pensieri che mi parevano importanti e, alla fine mi sono accorto di averne tralasciati più del necessario. Alcuni li ho raccolti qui per non dimenticarli.


Particolare-universale
Che rapporto – o che differenza – c’è tra particolare e universale?
C’è un modo di considerare il particolare come appartenente ad un universale e un altro di vederlo opposto all’universale.
La diversità delle due considerazioni è enorme. L’‹appartenente› rappresenta un ordine, mentre l’‹opposto› significa disordine, o meglio un impedimento all’ordine. Ovviamente il particolare non è universale, ma se partecipa si distingue nell’unità; se si oppone si divide nella nullità.


Pienezza-definizione
Anche il particolare può essere completo nella sua pienezza, ovverosia perfetto. È una perfezione diversa da quella dell’universale, ma che illustra specifica e spiega lo stesso universale in una precisazione che non è definizione – la precisazione distingue e mette in luce le diverse intensità, la definizione limita e rileva i contrasti di luce.
Ciò che è perfetto non è compiuto nel senso che è immobile, ma continua ad essere scelto nei particolari così come è preferito nella sua integrità. Questo è possibile perché ‹preferito› e ‹scelto› indicano un ordine ed una volontà che sono proprie di uno spirito che unisce i particolari all’universale.


Aseità di Dio
Il termine aseità indica una sostanza o un essere che per esistere non dipende e non ha bisogno di qualcos’altro diverso da sè. Questa caratteristica è propria di Dio che, a detta di Aristotile, non ha bisogno di un corpo perché la sua esistenza non dipende dalla materia e ancora non ha bisogno di tenpo e di spazio. 
Effettivamente a Dio non ‹manca› nulla. Ma proprio per questo, in un certo senso, non manca nemmeno di un corpo e, sempre in un certo senso, non manca nemmeno di materia, semmai è una materia e un corpo che sono suoi propri, mentre quelli dell’uomo sono mancanti e abbisognano sempre di una pienezza che non è autonoma. Quando invece la perfezione è anche pienezza di partecipazione allora diventa partecipata e si fa corpo e materia che non sono divisione ma per l’appunto partecipazione e, in questo senso, sono perfino proprietà di Dio. La stessa cosa vale per la mancanza di spazialità e la temporalità, tanto più che lo spazio e il tempo non sono materiali, ma sono una misura di ciò che è materiale.


Caso o causa dell’evoluzione
Una riflessione di Aristotile sembra scritta da un filosofo moderno: quello che è accaduto fortuitamente è diventato necessario e quello che era un puro caso è stato considerato una causa, mentre invece è solo abituale. 
È vero che la pioggia, che è necessaria alla crescita dei cereali, non cade per il fatto che il frumento lo vuole, ma…
Ma perché cade? Perché lùmidità delle nubi con il freddo si è condensata in gocce d’acqua. Quindi c’è una causa della pioggia ed una causa diversa che risponde alle necessità del frumento. Non è occasionale la pioggia, anche se non è causata dalla necessità della crescita dei cereali. In pratica ad ogni effetto c’è una causa, il problema semmai è se tutte le cause e tutte gli effetti insieme concorrono ad una risultante unica che noi giudichiamo intelligente, mentre di per sé è anche ‹ordinata›.
In questo senso, anche quello che sopravvive perché è ‹efficiente› nell’insieme trova la sua causa nel concorso dei rapporti. In altre parole come il raffreddamento delle nubi provoca la pioggia, così il concorso di più cause provoca il perdurare di certi effetti, ed è quindi il concorso la causa di certe evoluzioni. Anche in questo caso non è messa in dubbio la causa, ma l’intelligenza del concorso delle cause. In altre parole le cause non sono intelligenti pur rimanendo esistenziali senza l’ordine del loro concorso che è invece spirituale. L’ordine non dipende dalle realtà e le realtà non dipendono dall’ordine, ma le une non esitono e non sono ordinate se non perché distinte in unità, tanto che possono esser viste le une come causa delle altre.
Il problema quindi non è se le realtà di questo mondo evolvono per caso, ma se esiste una causa generale alla evoluzione.
La risposta a questo problema non è analitica. La ragione trova delle cause per ogni effetto, ma l’indagine dell’intelligenza o della finalità del concorso delle cause non poggia su una indagine scientifico-analitica, ma su un giudizio dove non manca il concorso della volontà volente. Come un uomo ‹vuole› quel che spera di ottenere, per il solo fatto che ‹ordina› il complesso delle cause che gliene danno la possibilità al suo scopo, così ‹giudica› possibile che il mondo sia ordinato al raggiungimento di una unità dove le parti concorrono come particolarità necessarie all’insieme. Si tratta di un giudizio analogico e non solo di una indagine logica. L’analogia è il completamento della logica che permette alle conoscenze puramente razionali di diventare giudizi ‹intelligenti› o, con altre parole, teleologici.

venerdì 15 ottobre 2010

Clinamen



Con il termine di clinamen Epicuro intendeva una certa deviazione del movimento degli atomi dovuta al caso, togliendo loro quel determinismo, prospettato da Democrito, che fissava inesorabilmente la loro caduta. Gli atomi dei due filosofi erano una sorta d’intuizione e interpretazione della costruzione della realtà fisica che oggi è stata superata dalla scienza moderna. Il clinamen rappresenterebbe un primo tentativo di riconoscere una certa libertà della psiche; negata da alcuni filosofi materialisti.
Si tratta del caso, che non è mai a caso, perché anche la conoscenza per caso non conosce mai un qualcosa se non ha eliminato il caso.
Dopo essermi permesso questo gioco non solo di parole, ma anche di ragioni, vorrei esaminare quel movimento incontrollato della psiche – anche psiche è un termine vago – non ancora razionalizzato dalla conoscenza e avvertito dalla coscienza. 
Si tratta: 
1) delle inclinazioni naturali. Esse hanno la caratteristica della spontaneità e sono espressioni dell’essere dell’uomo. Si manifestano sensibilmente come istinti, concettualmente come mozioni e, infine, solo con le idee meritano la definizione di virtù. Come inclinazioni che non sono ancora virtù, non sono del tutto efficienti e per così dire sono pre-causali o come direbbe Epicuro casuali. Istinti e mozioni saranno poi, con una conoscenza più chiara ed una coscienza più pura sostituite dal riconoscimento delle virtù che di per sé sono la causa anche delle inclinazioni e delle mozioni.
2) Le inclinazioni esistenziali, analogamente a quelle naturali, prima di essere razionalizzate sono indifferenti, dipendono dalle prime percezioni che inducono alla descrizione proposizionale. Esse si presentano con aspetti diversi nel corso dello sviluppo intellettuale. In un primo tempo, come curiosità infantili,  rispondono alle esigenze di una razionalità iconica che è sempre senza precisione e quindi non conosce nemmeno quando immagina, ma che prepara gli elementi affinché la conoscenza possa scegliere e precisare. Successivamente le mozioni rappresentano la gratificazione dei concetti, che promuove e prepara una razionalità eidetica. Solo l’attenzione, lo studio e l’operare si incaricheranno di sostituire curiosità e interesse in razionalità compiuta e quindi in conoscenze del tipo di acquaintance (conoscenze di fatto e non solamente di comunicazione). 
3) Le inclinazioni dello spirito quando non sono ordinanti, sono solamente elencanti, ovverosia hanno la caratteristica di essere enumeranti un intero, per un verso rigide e per un altro verso confuse. Come le inclinazioni dell’essere non potevano prescindere da una certa potenza e quelle dell’esistere da una descrizione, così quello dello spirito non possono essere indifferenti; persino in questo stato non di coscienza, ma di inclinazione istintiva sono quasi affettive e si esprimono in una certa pre-simpatia indipendente da ogni giudizio di ordine. Tutte le inclinazioni sono positive ovverosia sono predisposizioni ad un successivo completamento delle operazioni prodotte dalle varie distinzioni che le hanno generate, ma per il fatto che sono indifferenti possono completarsi positivamente oppure al contrario negativamente. L’esempio più evidente riguarda le inclinazioni dello spirito che quasi in origine nascono o positive con la simpatia o negative con l’antipatia. Quest’ultima non solo è negativa, ma anche limitante per l’essere con le inabilità e per l’esistere con la trascuratezza. In pratica le inclinazioni formulano insieme quei cosiddetti ‹giudizi-istintivi› dei quali è pieno l’universo-uomo e che lo dispongono a potere, volere e conoscere ancora prima di poter emettere ‹giudizi-propri›. In altri scritti ho parlato di precognizione, che è una scelta consenziente di tutte le inclinazioni positive ed un rifiuto voluto delle negative, ma esiste anche un pre-potere e un pre-volere.