giovedì 21 ottobre 2010

Il Dio di Aristotele

Appunti su un testo di Hirschberger


La lettura dell’esposizione di  Aristotele sul testo di Hirschberger (Geschichte der Philosophie) è stata l’occasione per riflettere sulla metafisica e in particolare su Dio. Ho cercato di scrivere quei pensieri che mi parevano importanti e, alla fine mi sono accorto di averne tralasciati più del necessario. Alcuni li ho raccolti qui per non dimenticarli.


Particolare-universale
Che rapporto – o che differenza – c’è tra particolare e universale?
C’è un modo di considerare il particolare come appartenente ad un universale e un altro di vederlo opposto all’universale.
La diversità delle due considerazioni è enorme. L’‹appartenente› rappresenta un ordine, mentre l’‹opposto› significa disordine, o meglio un impedimento all’ordine. Ovviamente il particolare non è universale, ma se partecipa si distingue nell’unità; se si oppone si divide nella nullità.


Pienezza-definizione
Anche il particolare può essere completo nella sua pienezza, ovverosia perfetto. È una perfezione diversa da quella dell’universale, ma che illustra specifica e spiega lo stesso universale in una precisazione che non è definizione – la precisazione distingue e mette in luce le diverse intensità, la definizione limita e rileva i contrasti di luce.
Ciò che è perfetto non è compiuto nel senso che è immobile, ma continua ad essere scelto nei particolari così come è preferito nella sua integrità. Questo è possibile perché ‹preferito› e ‹scelto› indicano un ordine ed una volontà che sono proprie di uno spirito che unisce i particolari all’universale.


Aseità di Dio
Il termine aseità indica una sostanza o un essere che per esistere non dipende e non ha bisogno di qualcos’altro diverso da sè. Questa caratteristica è propria di Dio che, a detta di Aristotile, non ha bisogno di un corpo perché la sua esistenza non dipende dalla materia e ancora non ha bisogno di tenpo e di spazio. 
Effettivamente a Dio non ‹manca› nulla. Ma proprio per questo, in un certo senso, non manca nemmeno di un corpo e, sempre in un certo senso, non manca nemmeno di materia, semmai è una materia e un corpo che sono suoi propri, mentre quelli dell’uomo sono mancanti e abbisognano sempre di una pienezza che non è autonoma. Quando invece la perfezione è anche pienezza di partecipazione allora diventa partecipata e si fa corpo e materia che non sono divisione ma per l’appunto partecipazione e, in questo senso, sono perfino proprietà di Dio. La stessa cosa vale per la mancanza di spazialità e la temporalità, tanto più che lo spazio e il tempo non sono materiali, ma sono una misura di ciò che è materiale.


Caso o causa dell’evoluzione
Una riflessione di Aristotile sembra scritta da un filosofo moderno: quello che è accaduto fortuitamente è diventato necessario e quello che era un puro caso è stato considerato una causa, mentre invece è solo abituale. 
È vero che la pioggia, che è necessaria alla crescita dei cereali, non cade per il fatto che il frumento lo vuole, ma…
Ma perché cade? Perché lùmidità delle nubi con il freddo si è condensata in gocce d’acqua. Quindi c’è una causa della pioggia ed una causa diversa che risponde alle necessità del frumento. Non è occasionale la pioggia, anche se non è causata dalla necessità della crescita dei cereali. In pratica ad ogni effetto c’è una causa, il problema semmai è se tutte le cause e tutte gli effetti insieme concorrono ad una risultante unica che noi giudichiamo intelligente, mentre di per sé è anche ‹ordinata›.
In questo senso, anche quello che sopravvive perché è ‹efficiente› nell’insieme trova la sua causa nel concorso dei rapporti. In altre parole come il raffreddamento delle nubi provoca la pioggia, così il concorso di più cause provoca il perdurare di certi effetti, ed è quindi il concorso la causa di certe evoluzioni. Anche in questo caso non è messa in dubbio la causa, ma l’intelligenza del concorso delle cause. In altre parole le cause non sono intelligenti pur rimanendo esistenziali senza l’ordine del loro concorso che è invece spirituale. L’ordine non dipende dalle realtà e le realtà non dipendono dall’ordine, ma le une non esitono e non sono ordinate se non perché distinte in unità, tanto che possono esser viste le une come causa delle altre.
Il problema quindi non è se le realtà di questo mondo evolvono per caso, ma se esiste una causa generale alla evoluzione.
La risposta a questo problema non è analitica. La ragione trova delle cause per ogni effetto, ma l’indagine dell’intelligenza o della finalità del concorso delle cause non poggia su una indagine scientifico-analitica, ma su un giudizio dove non manca il concorso della volontà volente. Come un uomo ‹vuole› quel che spera di ottenere, per il solo fatto che ‹ordina› il complesso delle cause che gliene danno la possibilità al suo scopo, così ‹giudica› possibile che il mondo sia ordinato al raggiungimento di una unità dove le parti concorrono come particolarità necessarie all’insieme. Si tratta di un giudizio analogico e non solo di una indagine logica. L’analogia è il completamento della logica che permette alle conoscenze puramente razionali di diventare giudizi ‹intelligenti› o, con altre parole, teleologici.

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