sabato 27 novembre 2010

Una gnoseologia spiegata dalla bibbia



La prima icona che spiega il processo cognitivo è il racconto della creazione della donna.
Adamo cerca un aiuto e non lo trova nelle realtà dell’universo, ma in un se stesso diverso da sé che è Eva, ovverosia in un altro uomo: nella donna.
Si tratta di un evento con tutte le caratteristiche della idealità. Mentre la conoscenza delle realtà del mondo pur sensibile era insoddisfacente, la conoscenza di se stesso nell’altro uomo ha un significato, con una prima valutazione, concettuale, perché consiste in un aiuto. 
Questo significato non è l’unico, infatti, l’uomo non vede in lei solamente la convenienza di essere aiutato che non aveva trovato altrimenti, ma anche un altro sé e, nello stesso tempo, un dono di Dio. Adamo, pur incosciente nel sonno riceve un quasi se stesso, degno di sé senza cercarlo e senza pagarlo. Si tratta di un dono, di un aiuto, di un se stesso, di un non altri e non altrimenti: in una parola si tratta di un bene e di una conoscenza ideale e quindi dell’idea di uomo. 
È la prima idea che l’uomo conosce insieme a quella di Dio e, in questo modo, conosce anche quella dell’universo che lo circonda, che è un quasi-aiuto-cercato, ma che non lo è del tutto, perché non è come quello che ha trovato invece in Eva.
La seconda icona spiega la conoscenza solo indirettamente presentando di per sé una ‹non-conoscenza›, che è anche una incoscienza. Si tratta di una conoscenza della realtà non ideale, provocata dall’‹astuzia› di una convenienza, non dalla ricezione obiettiva di un dono. È la conoscenza di chi indaga, ma non ama, di chi dubita ma non ha fiducia: di per sé più dubbio che non conoscenza, ovverosia consiste nel riconosere in sé la certezza di non saper amare e quindi l’avvertenza di non poter conoscere. 
Si tratta della conoscenza di una mancanza, ovverosia del male. E Adamo che non si fida perde un amico che è Dio stesso, non perde l’amicizia di Dio, ma perde sé come suo amico. Per questa ragione non può più parlare con lui senza il bisogno di sussidi, che trova nei vestiti, per non essere nudo e provare vergogna della sua mancanza. In questo modo ha perso una realtà ideale e una conoscenza delle idee. Tra lui e la realtà c’è un divario: un vestito che la copre e che permette per un verso di vederla, ma che per un altro verso riesce a nasconderla. È la conoscenza sulla base di un ordine scelto ad arte – non un ordine, ma una convenzione – ma non accolto del tutto nell’‹amicizia-conoscenza-coscienza› spontanea delle virtù.
La terza icona-realtà è quella della Madonna che all’annuncio dell’angelo afferma di non conoscere uomo. Non si tratta di una bugia, ma della confessione di una realtà. Maria conosceva Giuseppe promesso sposo, ma non era una conoscenza ideale, in un certo senso era una non-conoscenza concreta ed effettiva, mancava la chiarezza e la purezza originale del dono di Dio. Per questo Maria aveva già rifiutato una conoscenza dell’uomo non ideale, ma nello stesso tempo riceve la rivelazione di un ristabilimento ed una ricostruzione della idealità nell’uomo Gesù. 
Dio, che con il peccato di Adamo aveva perso un amico ideale, se voleva ritrovarlo ideale e amico, lo doveva ricostruire e, non trovandolo, lo ha ‹ri-creato› non più usando il fango, ma servendosi di se stesso. Si tratta della nuova creazione della realtà ideale che produce in Maria la conoscenza-riconoscenza della idealità e delle idee nella realtà di quell’altro uomo al quale lei stessa aveva dato la sua carne. 
La ricostruzione della idealità ‹uomo› e la conoscenza ideale ricostruita dell’uomo è sempre quella di un uomo perfetto, ovverosia senza confronti e senza uguali, che non cerca aiuto da alcuno, ma che è in se stesso di aiuto a tutti. È Gesù che si fa aiutante per ridare ad ogni uomo la sua stessa idealità dell’aiutare. L’uomo che ama, che aiuta concretamente ricostruisce con ‹Gesù-uomo-ideale› la nuova creazione, perché conosce e riconosce la realtà delle idee e non si ferma alla conoscenza esteriore delle apparenze sensibili ed al significato concettuale delle convenzioni e dell’utilitarismo.
Nella bibbia non ci sono solamente immagini che spiegano, ma realtà concrete di Dio, anche se, per essere comprensibili, si possono considerare come icone visibili. Come la conoscenza della realtà ideale è impossibile senza le virtù, una lettura della bibbia –sempre senza le virtù – non spiega a sufficienza, perché è stata scritta per illustrare le idealità e una conoscenza eidetica senza l’aiuto delle virtù è impossibile.
I rapporti tra le ‹distinzioni›
L’ordine non è causato e non costituisce un fine, ma è programmato dall’essere, mentre a sua volta è la disposizione dell’esistere.
L’esistere non è programmato, ma causato dall’essere e di per sé costituisce un fine riconosciuto dall’ordine.
A sua volta l’ordine non è causa dell’esistere ma disegno e, nello stesso tempo, ambiente-atmosfera per l’essere.
L’esistere, poi, non è causa efficiente, ma finale dell’essere e intelligenza dell’ordine, ovverosia è conoscenza dell’essere e coscienza dell’ordine.
In pratica, l’essere è ordinato all’esistere e l’esistere dà all’essere la possibilità di effettuarsi; questo nell’ordine la cui manifestazione più materiale consiste nel tempo e nello spazio.

venerdì 12 novembre 2010

Confessione filosofica

Nel riordinare i miei blog, mi è parso necessario mettere giù in due parole le ragioni che mi hanno mosso a pubblicarli. 
Lo faccio ora con: 
a) una specie di confessione o manifesto o confessione filosofica.
b) una intervista come riassunto e come indicazione pratica di questa filosofia,
c) una testimonianza che è un esempio di applicazione.

a) confessione filosofica
1. Qualsiasi filosofia che non spiega il ‹fenomeno morte› (il fenomeno che va sotto il nome di morte) è in se stessa meno filosofia e più ignoranza , almeno, meno ragionevole; ora l'unica filosofia che spiega la morte è quella di Gesù di Nazaret.
La sua spiegazione è semplice e si potrebbe esprimere in due proposizioni:
_ l'uomo che muore vede Dio così come è
_ L'uomo che muore conosce se stesso come Dio lo vede dall'eternità e come Dio stesso ha supplito ai suoi deficit e alle sue mancanze.
In questo senso la morte è un atto di assertività da parte dell'uomo e una continuata promulgazione di vita da parte di Dio.
Nel contesto di questa filosofia possono nascere tante domande e altrettante risposte che fungono da spiegazioni aggiunte formulate da molti pensatori, anche se non sono essenziali e, alle volte, persino discutibili. 
Una di queste aggiunte raggruppa tutte quelle considerazioni sullo sviluppo della razionalità umana, come quelle fondamentali di Piaget, una volta completate da quelle altre considerazioni che riguardano l'affettività dell'uomo, specialmente così necessaria nei momenti critici del passaggio da uno stadio razionale a quello successivo dello sviluppo umano.
Nel contesto della volontà affettiva dell'uomo, lo studio delle e della virtù occupa un ruolo d'importanza evidente, che insieme alla considerazione delle proprietà della natura umana presentano il presupposto (precognizione) della stessa capacità razionale dell'uomo e, quindi, di ogni filosofia.
In questo senso, per capire il fenomeno morte è necessaria l'intera vita vissuta, cioè lo sviluppo completo della razionalità umana, l'esercizio continuo delle virù e la realizzazione delle possibilità naturali. Una mancanza di sviluppo razionale nelle età prima di aver raggiunto il suo compimento è compensata da un contributo aggiunto e indispensabile delle virtù affettive. In pratica, ogni bambino, ogni giovane e ogni adulto crede ama e spera di raggiungere quella perfezione naturale e razionale che gli farà comprendere tutto il suo modo di vivere e che lo renderà disponibile e ricettivo alla comprensione della sua vita post mortem (il dopo-morte) che diventerà sperimentale solamente nel tempo dell'eternità.
In ogni caso se si rinuncia ad una spiegazione della morte non si può pretendere d'essere maestri, ma ci si deve accontentare di esserne ignoranti. Questo non vuol dire come invece sia sempre possibile continuare ad essere e a divenire eroi, santi e martiri. In altre parole, un uomo ignorante, ma santo è più uomo di un altro che crede di sapere tutto sulla morte, senza mai tendere a una maggiore perfezione. Il termine santo equivale a quello di ‹divino›, cioè di partecipe della spiegazione della morte, quando egli la vivrà in eterno dopo decesso fisico, partecipando alla Causa, vedendo la Ragione, con-sentendo alla Consolazione, della sua esistenza.
Rimarcando a corollario quanto detto, chi non vuole spiegarsi la morte, muore anche nel quotidiano e rinuncia a ogni progresso razionale, chi invece studia il fenomeno morte, può persino essere incolpato di credere a delle illusioni, ma non può essere incolpato di credere a una vita senza motivi e senza spiegazioni che sia peggiore di una continua morte.
Ci sono uomini che lavorano per costruire una società migliore, che se è mortale è anche inutile, tuttavia proprio costoro testimoniano di fare quello che non riescono a spiegare.

b) una intervista 
Come spiegare tutto questo a chi non accetta spiegazioni?
Semplicemente facendogli notare le ragioni del suo vivere, in pratica, il suo stesso vivere è una spiegazione: basta chiedergli
- Perché vivi? Per mangiare per bere e poi morire?
- No! Io vivo per mia moglie, i miei figli e per un futuro migliore.
- Ma tu credi che questo sia possibile?
- Certamente, io credo a tutto questo!
- Ma quale prova mi dai della tua fede?
- Te la posso dare perché io amo la vita.
- Allora è l'amore la prova della vita e della ragione; ebbene, ci può essere un amore meno amante?
- No!
- Ma, allora, l'amore che non muore perché è sempre e perfettamente amante, è il Dio che ti ama per l'eternità.

c) una testimonianza 
Noi abbiamo bisogno di gente che ragiona perché ama e di gente che ama perché ragiona, al punto di preferire quasi un santo al posto di un filosofo.
Io amo moltissimo i santi e, tra questi, ‹San› Palmiro Togliatti che è morto per aver diffuso e praticato una lotta che fosse più dolce di quella messa in atto, per esempio, in Cambogia o in Vietnam, anche se non posso asserire che chi è invischiato in lotte e in guerre, al posto d'essere spietato e crudele, sia quella persona gentile che ama sempre e che non odia mai, tanto da meritarsi il titolo di santo in continuità.

NB. Questa ‹confessione› mi sembrava così importante che l'ho copiata tale quale su tutti i miei blog, perfino su uno che io scrivo in lingua tedesca, purtroppo non tradotto, sperando che qualcuno sappia anche l'italiano meglio di quanto io so il tedesco. 

mercoledì 3 novembre 2010

Aggiunte al post. Riflessioni filosofiche su ‹la risurrezione›


Vedi sotto in questo blog

il MARTEDÌ 30 MARZO 2010

Riflessioni filosofiche su ‹la risurrezione› (Etica)

Questo scritto è un estratto da un libro 
che ho intenzione di pubblicare,
almeno nei miei blog.


Un medico non può adottare la scusa che è medico per non 
prendere una posizione davanti all’annuncio della resurrezione di Gesù; mentre egli assiste ogni giorno la vita in uno stato di precarietà, con questo evento, essa gli viene presentata nel massimo del suo dispiegarsi. Certamente ai tempi di Gesù nessuno è andato a sentire con lo stetoscopio o a vedere con l’elettrocardiogramma se il suo cuore avesse ripreso i battiti normali. Ma se egli stesso aveva mangiato con gli apostoli e detto a Tommaso di toccare le ferite riportate sulla croce, il suo ritorno alla vita non avrebbe bisogno di altri attestati.
Quale sarà quindi il giudizio di un medico?
Anche qui, come quello di quel contadino di cui ho già parlato a proposito dell’epilettico del vangelo che non aveva mai letto libri di terapia.
Eppure non proprio del tutto come lui. Infatti, almeno il contadino ha un certo presentimento di una vita che può durare oltre la morte, infatti, tutti i popoli della terra hanno onorato i morti, non solo nel ricordo della loro vita passata, ma anche nella speranza di una futura. Un uomo di studio, invece, molte volte ha una certa riluttanza a basarsi su credenze popolari e quindi gli manca questa base intuitiva. Eppure ha frequentato il liceo, ha studiato un po’ di filosofia, non è del tutto privo di qualche prova ragionevole, per quanto discussa, che gli fa ammettere la possibilità di una vita post mortem.
Ha più argomenti lui o la persona che non ha studiato?
Il mondo colto ebraico dei tempi di Gesù si divideva tra coloro che credevano nella risurrezione dei morti e chi la negava. Il mondo di oggi non è dissimile da quello di allora, alcuni si dicono certi di essa, altri la credono una superstizione.
Cosa apporta di nuovo alla nostra considerazione su questo argomento l’annuncio degli apostoli e la predicazione della chiesa?
Almeno altri due elementi.
Il primo che la resurrezione di Gesù è avvenuta con il corpo, anche se un corpo glorioso che poteva passare tra le porte chiuse del cenacolo.
Il secondo che si trattava di una testimonianza. Gli apostoli si dichiaravano testimoni di un fatto fisico che non poggiava quindi sui ragionamenti dei filosofi o sulle intuizioni della gente comune, ma sulla realtà di una esperienza.
Ma un ancora un terzo elemento veniva presentato con la loro predicazione. Essi dicevano: “Quel Gesù che avete ucciso appendendolo sulla croce...”. Il loro annuncio diventava così, nello stesso tempo, un atto di accusa per i farisei. Loro, che avevano ucciso Gesù, si trovavano nella necessità di difendersi, contrastando queste asserzioni e questi assertori; anche noi, qualche volta, ci troviamo nella loro posizione, siamo incolpati in un certo senso di atteggiamenti per qualche motivo simili ai loro.

Omissis

Rileggendo questi appunti così modesti a proposito di un evento così importante, sono ritornato, particolarmente nel corso di quest’anno, a cercare non solo delle testimonianze ma se possibile anche delle prove razionali a proposito.
Una prova in questo senso riguarda tutto il problema metafisico, ovverosia non solo la vita eterna, ma ancor prima e sopratutto l’esistenza di Dio. Ebbene a questo proposito ogni uomo si costruisce le sue convinzioni fin che vive e nemmeno io mi stupisco di avere quelle mie che, magari sono diverse da quelle altrui.
Ebbene, almeno provvisoriamente e dal mio punto di vista, la prova razionale dell’esistenza di Dio consiste nel fatto che nessun filosofo abbia mai negata codesta esistenza. Questa affermazione può risultare sorprendente per un professore di filosofia, che sa benissimo che ci sono molti filosofi atei, ma io penso che al giorno d’oggi ogni uomo sorride divertito se fosse richiesto di credere agli Dei pagani com’erano Giove, Saturno, Mercurio o a tanti altri consimili, ma nessuno mette in dubbio che ogni uomo, al posto di sorridere, crede a chi comanda e crede a chi ha autorità, come se fosse un dio perché egli riconosce questo dio e non lo ha mai messo in dubbio per paura di finir male i suoi giorni e, magari di essere da lui eliminato fisicamente. Anche i filosofi più atei hanno ammesso che per non cadere nel caos, ci debba essere un re o una sorta di padreterno che castiga le teste matte e nessuno di loro lo ha mai messo in dubbio. Qualsiasi persona in pratica crede con una fede cieca nel nostro mondo, che si traduce nella prassi quotidiana a quella stessa fede che non si permette mai di mettere in dubbio, per esempio, la validità delle leggi stradali, così come nessun bambino mette in dubbio le parole della madre. Il fatto è che, non so per quale assurdo equivoco, si è venuta confondendo la virtù della fede nei comandi della mamma e in quelli della polizia con quell’altra fede nei comandi di chi regge il mondo intero e, tutto questo, anche se nessun uomo non voglia mai tentare di essere un ‹non uomo› per fare una supposta volontà propria al posto di obbedire all’ordine delle leggi naturali e alle promulgazioni delle leggi sociali. Se si vedono fedi diverse si possono vedere anche degli dei diversi, ma proprio per questo si ammettono gli dei e si approvano e si obbediscono, ovverosia si riconoscono degni di fede, almeno quanto basta per non mettere in dubbio la fede in quell’uomo che è ogni ateo quando in pratica afferma nella sua vita quotidiana che all’infuori di lui non c’è un altro dio.
Tutto questo argomento merita una trattazione diversa e più approfondita, tuttavia nei limiti di queste pagine basta riconoscere che ogni età razionale ha i suoi dei e ogni persona che ragiona rinuncia a questo o a quel dio, per essere libero di scegliere, meditare e onorare l’unico dio che egli conosce, anche se talvolta, malauguratamente, è solamente la propria persona deificata fino all’esasperazione.
Dopo queste premesse, non si può quindi nemmeno evitare di chiederci razionalmente in che cosa consiste la risurrezione.

Una domanda del genere è ammissibile... (vedi articolo del 30 mar.)

Alla domanda, quindi, in che cosa consiste la nostra resurrezione, si può rispondere molto semplicemente che consisterà nel continuare a vivere quella vita di tralci sempre, e sempre meglio, uniti all’unica vite che è Gesù stesso. In questo senso continuerà a morire quella pseudo-vita che è la nostra esistenza attaccata alle nullità del momento che potrà, invece, essere finalmente libera di affermarsi e realizzarsi in modo completo nell’unità con Dio per partecipazione. In altre parole se la vita è un bene e la morte è un male, ovverosia una mancanza di bene, deve morire questa morte e questa mancanza, per poterci automaticamente trovare nella possibilità concreta della pienezza dell’unica vita che non muore, almeno per quel poco che l’abbiamo già assunta, ma ben di più per quel tanto che riempirà il nostro vuoto, una volta che ci siamo accorti in che baratro esso consisteva di fatto prima della morte fisica. La risurrezione rappresenta una continuata riconferma dell’amore di Dio che tra tutti i suoi doni non ha tralasciato di farci il più grande che è quello della ‹remissione dei peccati›, che consiste nel trarre un bene perfino dal male o, in altre parole nel ri-creare un esistere perfino dove mancava. Respingere il suo dono significa privarsi della vita, ovverosia morire; in altre parole, respingere la partecipazione alla vita di Dio significa piombare nel nulla assoluto e nella dimenticanza eterna. Il male, infatti, è mancanza di bene e la nullità assoluta è la mancanza del Sommo Bene, che per l’uomo equivale a una mancanza di partecipazione di creatura con il suo creatore. In questo modo, possiamo comprendere in parte, e capiremo poi del tutto, il vero ‹Essere› (con l’iniziale maiuscola), perché il nostro stesso ‹esistere› unito a quello del Signore può diventare continuamente è sarà per sempre l’eterna risposta adeguata che spiega in che cosa consiste la vera vita.

Da tutte queste riflessioni appare evidente che il vero problema non consiste in cosa o come sia la risurrezione, ma nel realizzare la vita del Signore attimo dopo attimo per partecipazione, ovvero essere altri tranci della vite o, con un’altra dizione, essere ‹altri-Cristo›. Non si tratta di un problema teorico, ma molto pratico. Come s’impara a guidare un’automobile sedendosi al volante, così s’impara a essere ‹altri-Cristo› cominciando a esserlo, per esempio, prima di una pur piccola azione o decisione chiedersi di proposito: “Cosa avrebbe fatto Gesù al mio posto?”, per trarne le conseguenze. Senza esperienza non c’è ragione e senza uno scopo non s’inizia una esperienza, in questo senso qualsiasi rinuncia alla risurrezione consiste nell’aver fede nella morte, senza provare mai una volta a risorgere dopo una piccola morte che inesorabilmente incombe sempre in ogni attimo della nostra esistenza.

Ebbene, se questa è la posizione teorica per affrontare il problema della risurrezione, dal punto di vista pratico ce n’è un altra molto più semplice che è quella non tanto di risorgere, ma di morire, perché la risurrezione viene poi da sé, tanto più che, mentre per risorgere dobbiamo anche volerlo e non solo accettarlo, invece per morire dobbiamo accettarlo senza nemmeno volerlo.
Cosa significa un discorso del genere?
Semplicemente che dobbiamo subito superare gli stadi del nostro sviluppo fisico e intellettuale insieme ad un deciso esercizio della nostra vita spirituale – che non ha bisogno di nessun progresso, ma solamente di un continuo adempimento – per vivere sempre più e sempre più intensamente.
Noi ci siamo soffermati più volte in occasione di altri scritti su questo argomento; qui basta ricordare che dopo lo stadio della razionalità figurativa del bambino per poter entrare in quella concettuale del fanciullo, è necessario patire la morte della immaginazione fabulistica, così come dopo la fanciullezza è solamente per via della de-erotizzazione che si accede al mondo degli Ideali e, per finire, dobbiamo preparaci alla morte più definitiva con la de-possessione e con il disfacimento persino fisico delle nostre possibilità, per acquisire una visione della vita, liberata dal temporale e dal locale. Una persona anziana che perde necessariamente ogni cosa, nell’accettare questa esperienza compie un diuturno esercizio di de-possessione per arrivare senza terra ad abitare nel regno dei cieli. De-fabulismo, de-erotizzazione e de-possessione sono le occasioni semplici e evidenti per preparaci alla risurrezione e il loro superamento è la miglior prova di una continua rinascita e dell’esistenza della vita eterna. 
Meditando questi argomenti non ci si ferma a far questioni e non si perde tempo inutilmente, anzi si patiscono di meno le pene necessarie che alle volte sembrano insormontabili. Un mio collega era convinto che l’eutanasia sia la morte più dolce e più desiderabile, ebbene può darsi che sia vero, almeno per lui, ma è anche la più irresponsabile e la più irrazionale possibile. Lo si capisce meglio rileggendo la parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone. Il vangelo non descrive il loro decesso che rimane un mistero personale e privato, ma ne riporta le conseguenze: Lazzaro si trova in cielo con gli angeli e i santi, in un mondo amico, tra amici, sotto lo sguardo di un Padre, l’epulone si trova invece solo, in mezzo ai nemici, senza libertà e senza commiserazione: la sua richiesta di aiuto aumenta invece le sue delusioni e le sue pene. 
La miglior prova della risurrezione sta nella costruzione della famiglia umana e la miglior prova della morte continua, sta in ogni lite e in ogni contesa che, cominciate, non finiscono mai. Chi gode dei danni e del male che fa è già morto, chi gode del bene che fa è già sulla strada di una continua risurrezione.