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il MARTEDÌ 30 MARZO 2010
Riflessioni filosofiche su ‹la risurrezione› (Etica)
Questo scritto è un estratto da un libro
che ho intenzione di pubblicare,
almeno nei miei blog.
Un medico non può adottare la scusa che è medico per non
prendere una posizione davanti all’annuncio della resurrezione di Gesù; mentre egli assiste ogni giorno la vita in uno stato di precarietà, con questo evento, essa gli viene presentata nel massimo del suo dispiegarsi. Certamente ai tempi di Gesù nessuno è andato a sentire con lo stetoscopio o a vedere con l’elettrocardiogramma se il suo cuore avesse ripreso i battiti normali. Ma se egli stesso aveva mangiato con gli apostoli e detto a Tommaso di toccare le ferite riportate sulla croce, il suo ritorno alla vita non avrebbe bisogno di altri attestati.
Quale sarà quindi il giudizio di un medico?
Anche qui, come quello di quel contadino di cui ho già parlato a proposito dell’epilettico del vangelo che non aveva mai letto libri di terapia.
Eppure non proprio del tutto come lui. Infatti, almeno il contadino ha un certo presentimento di una vita che può durare oltre la morte, infatti, tutti i popoli della terra hanno onorato i morti, non solo nel ricordo della loro vita passata, ma anche nella speranza di una futura. Un uomo di studio, invece, molte volte ha una certa riluttanza a basarsi su credenze popolari e quindi gli manca questa base intuitiva. Eppure ha frequentato il liceo, ha studiato un po’ di filosofia, non è del tutto privo di qualche prova ragionevole, per quanto discussa, che gli fa ammettere la possibilità di una vita post mortem.
Ha più argomenti lui o la persona che non ha studiato?
Il mondo colto ebraico dei tempi di Gesù si divideva tra coloro che credevano nella risurrezione dei morti e chi la negava. Il mondo di oggi non è dissimile da quello di allora, alcuni si dicono certi di essa, altri la credono una superstizione.
Cosa apporta di nuovo alla nostra considerazione su questo argomento l’annuncio degli apostoli e la predicazione della chiesa?
Almeno altri due elementi.
Il primo che la resurrezione di Gesù è avvenuta con il corpo, anche se un corpo glorioso che poteva passare tra le porte chiuse del cenacolo.
Il secondo che si trattava di una testimonianza. Gli apostoli si dichiaravano testimoni di un fatto fisico che non poggiava quindi sui ragionamenti dei filosofi o sulle intuizioni della gente comune, ma sulla realtà di una esperienza.
Ma un ancora un terzo elemento veniva presentato con la loro predicazione. Essi dicevano: “Quel Gesù che avete ucciso appendendolo sulla croce...”. Il loro annuncio diventava così, nello stesso tempo, un atto di accusa per i farisei. Loro, che avevano ucciso Gesù, si trovavano nella necessità di difendersi, contrastando queste asserzioni e questi assertori; anche noi, qualche volta, ci troviamo nella loro posizione, siamo incolpati in un certo senso di atteggiamenti per qualche motivo simili ai loro.
Omissis
Rileggendo questi appunti così modesti a proposito di un evento così importante, sono ritornato, particolarmente nel corso di quest’anno, a cercare non solo delle testimonianze ma se possibile anche delle prove razionali a proposito.
Una prova in questo senso riguarda tutto il problema metafisico, ovverosia non solo la vita eterna, ma ancor prima e sopratutto l’esistenza di Dio. Ebbene a questo proposito ogni uomo si costruisce le sue convinzioni fin che vive e nemmeno io mi stupisco di avere quelle mie che, magari sono diverse da quelle altrui.
Ebbene, almeno provvisoriamente e dal mio punto di vista, la prova razionale dell’esistenza di Dio consiste nel fatto che nessun filosofo abbia mai negata codesta esistenza. Questa affermazione può risultare sorprendente per un professore di filosofia, che sa benissimo che ci sono molti filosofi atei, ma io penso che al giorno d’oggi ogni uomo sorride divertito se fosse richiesto di credere agli Dei pagani com’erano Giove, Saturno, Mercurio o a tanti altri consimili, ma nessuno mette in dubbio che ogni uomo, al posto di sorridere, crede a chi comanda e crede a chi ha autorità, come se fosse un dio perché egli riconosce questo dio e non lo ha mai messo in dubbio per paura di finir male i suoi giorni e, magari di essere da lui eliminato fisicamente. Anche i filosofi più atei hanno ammesso che per non cadere nel caos, ci debba essere un re o una sorta di padreterno che castiga le teste matte e nessuno di loro lo ha mai messo in dubbio. Qualsiasi persona in pratica crede con una fede cieca nel nostro mondo, che si traduce nella prassi quotidiana a quella stessa fede che non si permette mai di mettere in dubbio, per esempio, la validità delle leggi stradali, così come nessun bambino mette in dubbio le parole della madre. Il fatto è che, non so per quale assurdo equivoco, si è venuta confondendo la virtù della fede nei comandi della mamma e in quelli della polizia con quell’altra fede nei comandi di chi regge il mondo intero e, tutto questo, anche se nessun uomo non voglia mai tentare di essere un ‹non uomo› per fare una supposta volontà propria al posto di obbedire all’ordine delle leggi naturali e alle promulgazioni delle leggi sociali. Se si vedono fedi diverse si possono vedere anche degli dei diversi, ma proprio per questo si ammettono gli dei e si approvano e si obbediscono, ovverosia si riconoscono degni di fede, almeno quanto basta per non mettere in dubbio la fede in quell’uomo che è ogni ateo quando in pratica afferma nella sua vita quotidiana che all’infuori di lui non c’è un altro dio.
Tutto questo argomento merita una trattazione diversa e più approfondita, tuttavia nei limiti di queste pagine basta riconoscere che ogni età razionale ha i suoi dei e ogni persona che ragiona rinuncia a questo o a quel dio, per essere libero di scegliere, meditare e onorare l’unico dio che egli conosce, anche se talvolta, malauguratamente, è solamente la propria persona deificata fino all’esasperazione.
Dopo queste premesse, non si può quindi nemmeno evitare di chiederci razionalmente in che cosa consiste la risurrezione.
Una domanda del genere è ammissibile... (vedi articolo del 30 mar.)
Alla domanda, quindi, in che cosa consiste la nostra resurrezione, si può rispondere molto semplicemente che consisterà nel continuare a vivere quella vita di tralci sempre, e sempre meglio, uniti all’unica vite che è Gesù stesso. In questo senso continuerà a morire quella pseudo-vita che è la nostra esistenza attaccata alle nullità del momento che potrà, invece, essere finalmente libera di affermarsi e realizzarsi in modo completo nell’unità con Dio per partecipazione. In altre parole se la vita è un bene e la morte è un male, ovverosia una mancanza di bene, deve morire questa morte e questa mancanza, per poterci automaticamente trovare nella possibilità concreta della pienezza dell’unica vita che non muore, almeno per quel poco che l’abbiamo già assunta, ma ben di più per quel tanto che riempirà il nostro vuoto, una volta che ci siamo accorti in che baratro esso consisteva di fatto prima della morte fisica. La risurrezione rappresenta una continuata riconferma dell’amore di Dio che tra tutti i suoi doni non ha tralasciato di farci il più grande che è quello della ‹remissione dei peccati›, che consiste nel trarre un bene perfino dal male o, in altre parole nel ri-creare un esistere perfino dove mancava. Respingere il suo dono significa privarsi della vita, ovverosia morire; in altre parole, respingere la partecipazione alla vita di Dio significa piombare nel nulla assoluto e nella dimenticanza eterna. Il male, infatti, è mancanza di bene e la nullità assoluta è la mancanza del Sommo Bene, che per l’uomo equivale a una mancanza di partecipazione di creatura con il suo creatore. In questo modo, possiamo comprendere in parte, e capiremo poi del tutto, il vero ‹Essere› (con l’iniziale maiuscola), perché il nostro stesso ‹esistere› unito a quello del Signore può diventare continuamente è sarà per sempre l’eterna risposta adeguata che spiega in che cosa consiste la vera vita.
Da tutte queste riflessioni appare evidente che il vero problema non consiste in cosa o come sia la risurrezione, ma nel realizzare la vita del Signore attimo dopo attimo per partecipazione, ovvero essere altri tranci della vite o, con un’altra dizione, essere ‹altri-Cristo›. Non si tratta di un problema teorico, ma molto pratico. Come s’impara a guidare un’automobile sedendosi al volante, così s’impara a essere ‹altri-Cristo› cominciando a esserlo, per esempio, prima di una pur piccola azione o decisione chiedersi di proposito: “Cosa avrebbe fatto Gesù al mio posto?”, per trarne le conseguenze. Senza esperienza non c’è ragione e senza uno scopo non s’inizia una esperienza, in questo senso qualsiasi rinuncia alla risurrezione consiste nell’aver fede nella morte, senza provare mai una volta a risorgere dopo una piccola morte che inesorabilmente incombe sempre in ogni attimo della nostra esistenza.
Ebbene, se questa è la posizione teorica per affrontare il problema della risurrezione, dal punto di vista pratico ce n’è un altra molto più semplice che è quella non tanto di risorgere, ma di morire, perché la risurrezione viene poi da sé, tanto più che, mentre per risorgere dobbiamo anche volerlo e non solo accettarlo, invece per morire dobbiamo accettarlo senza nemmeno volerlo.
Cosa significa un discorso del genere?
Semplicemente che dobbiamo subito superare gli stadi del nostro sviluppo fisico e intellettuale insieme ad un deciso esercizio della nostra vita spirituale – che non ha bisogno di nessun progresso, ma solamente di un continuo adempimento – per vivere sempre più e sempre più intensamente.
Noi ci siamo soffermati più volte in occasione di altri scritti su questo argomento; qui basta ricordare che dopo lo stadio della razionalità figurativa del bambino per poter entrare in quella concettuale del fanciullo, è necessario patire la morte della immaginazione fabulistica, così come dopo la fanciullezza è solamente per via della de-erotizzazione che si accede al mondo degli Ideali e, per finire, dobbiamo preparaci alla morte più definitiva con la de-possessione e con il disfacimento persino fisico delle nostre possibilità, per acquisire una visione della vita, liberata dal temporale e dal locale. Una persona anziana che perde necessariamente ogni cosa, nell’accettare questa esperienza compie un diuturno esercizio di de-possessione per arrivare senza terra ad abitare nel regno dei cieli. De-fabulismo, de-erotizzazione e de-possessione sono le occasioni semplici e evidenti per preparaci alla risurrezione e il loro superamento è la miglior prova di una continua rinascita e dell’esistenza della vita eterna.
Meditando questi argomenti non ci si ferma a far questioni e non si perde tempo inutilmente, anzi si patiscono di meno le pene necessarie che alle volte sembrano insormontabili. Un mio collega era convinto che l’eutanasia sia la morte più dolce e più desiderabile, ebbene può darsi che sia vero, almeno per lui, ma è anche la più irresponsabile e la più irrazionale possibile. Lo si capisce meglio rileggendo la parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone. Il vangelo non descrive il loro decesso che rimane un mistero personale e privato, ma ne riporta le conseguenze: Lazzaro si trova in cielo con gli angeli e i santi, in un mondo amico, tra amici, sotto lo sguardo di un Padre, l’epulone si trova invece solo, in mezzo ai nemici, senza libertà e senza commiserazione: la sua richiesta di aiuto aumenta invece le sue delusioni e le sue pene.
La miglior prova della risurrezione sta nella costruzione della famiglia umana e la miglior prova della morte continua, sta in ogni lite e in ogni contesa che, cominciate, non finiscono mai. Chi gode dei danni e del male che fa è già morto, chi gode del bene che fa è già sulla strada di una continua risurrezione.
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