martedì 30 marzo 2010

Riflessioni filosofiche su ‹la risurrezione› (Etica)


In che cosa consiste la risurrezione?

Una domanda del genere è ammissibile, infatti, se si crede in una vita eterna non si può evitare di chiedersi in che cosa consista, d'altra parte una risposta non è facile, tanto più che il Signore non l'ha spiegata con dei ragionamenti, sebbene l'abbia insegnata con una vita che non meritavava la morte e con una resurrezione che rappresentava una promessa di vita anche per chi avrebbe meritato la morte.

C'è un episodio del Vangelo a cui si possono riannodare questi pensieri: è quello della resurrezione di Lazzaro. In quell'occasione, Marta, la sorella del defunto, si rivolge a Gesù: "Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà". Il Signore le riaponde: "Tuo fratello risusciterà". Effettivamente poco dopo richiama in vita Lazzaro, ma Marta prima di questo evento straordinario e malgrado la sua implicita richiesta – qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà, quindi anche una resurrezione illico et immediate – non sembra aspettarsi un ritorno alla vita istantaneo, infatti aggiunge: "So che risusciterà nell'ultimo giorno", e Gesù non la contraddice, anzi sembra confermare la sua fede in una resurrezione finale e eterna, non legata alla circostanza del momento, con le parole: "Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; Chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno". (Confronta Gv. 11, 17-27).In questo modo Gesù non eviterà di fare il miracolo di prolungare la vita terrena di Lazzaro, ma implicitamente spiega a Marta e a noi tutti che c'è una vita eterna che equivale a esere ‹altri Gesù›, in pratica che dipende da una partecipazione incontrovertibile con la sua stessa vita.

Alla domanda, quindi, in che cosa consiste la nostra resurrezione, si può rispondere molto semplicemente che consisterà nel continuare a vivere quella vita di tralci sempre e sempre meglio uniti all'unica vite che è Gesù stesso. In questo senso continuerà a morire quella pseudo-vita che è la nostra esistenza attaccata alle nullità del momento che potrà, invece, essere finalmente libera di affermarsi e realizzarsi in modo completo nell'unità con il Signore.In altre parole se la vita è un bene e la morte è un male, ovverosia una mancanza di bene, deve morire questa morte e questa mancanza, per poterci automaticamente trovare nella possibilità concreta della pienezza dell'unica vita che non muore, almeno per quel poco che l'abbiamo già assunta, ma ben di più per quel tanto che riempirà il nostro vuoto una volta che ci siamo accorti in che baratro esso consisteva di fatto.La resurrezione rappresenta una continuata riconferma dell'amore di Dio che tra tutti i suoi doni non ha tralasciato di farci il più grande che è quello della ‹remissione dei peccati›, che consiste nel trarre un bene prfino dal male o, in altre parole nel ri-creare un esistere perfino dove mencava.Respingere il suo dono significa privarsi della vita, ovverosia morire; in altre parole, respingere la partecipazione alla vita di Dio significa piombare nel nulla assoluto e nella dimenticanza eterna. Il male, infatti, è mancanza di bene e la nullità assoluta è la mancanza del Sommo Bene. In questo modo, possiamo comprendere in parte e capiremo poi del tutto il vero ‹Essere› (con l'iniziale maiuscola), perché il nostro stesso ‹esistere› unito a quello del Signore può diventare continuamente è sarà per sempre l'eterna risposta adeguata che spiega in che cosa consiste la vera vita.




Da tutte queste riflessioni appare evidente che il vero problema non consiste in cosa o come sia la risurrezione, ma nel realizzare la vita del Signore attimo dopo attimo per partecipazione, ovvero essere altri tranci della vite o, con un'altra dizione, essere ‹altri-Cristo›. Non si tratta di un problema teorico, ma molto pratico. Come si impara a guidare un'automobile sedendosi al volante, così s'impara a essere ‹altri-Cristo› cominciando a esserlo, per esempio, prima di una pur piccola azione o decisione chiedersi di proposito: "Cosa avrebbe fatto Gesù al mio posto?" e quindi agire di conseguenza. Senza esperienza non c'è ragione e senza uno scopo non s'inizia una esperienza, in questo senso qualsiasi rinuncia alla risurrrezione consiste nell'aver fede nella morte, senza provare mai una volta a risorgere dopo una piccola morte che inesorabilmente incombe sempre in ogni attimo della nostra esistenza.

martedì 16 marzo 2010

La prassi dell'unità-distinzione

Come costruire l'unità
L’unità-distinzione può considerarsi un problema e può manifestarsi un mistero.
Per cercare una possibile spiegazione la paragoniamo con un’altra questione.
Che cos’è la pace?
La domanda è un problema, mentre se io faccio la pace con il mio prossimo e se riesco anche a concluderla, tanto che la posso confermare in un contratto alla presenza di testimoni, alllora, in questo caso, supero qualsiasi dubbio su quel mistero che era per me la pace.
Altrettanto e a maggior ragione è quella risposta alla domanda che cosa sia l’unità. Se non la si costruisce, non la si sperimenta, se non la si sperimenta, non la si conosce e, quindi, non si può capire e non si può spiegare.
Come faccio io l’unità con me stesso?
La risposta è semplice. Io tutti i giorni eseguo fatti e dico parole che manifestano atti del mio esistere, come espressione delle facoltà donatemi dal mio essere (natura), ordinate dal volere del mio spirito.
In pratica, come avviene tutto questo?
La mia natura fa dono all’esistere delle sue facoltà e l’esistere le traduce in qualità. Una volta compiuto questo processo l’essere ‹vede› nell’esistere quel qualcosa di quel suo essere che si è fatto esistenza. Ora, ripetendomi, se l’essere vede nell’esistere se stesso chiarito, compreso vissuto, ovverosia vede più essere e insieme più esistere o, in altre parole, se vede sé nell’esistere, allora vede l’unità, perché vede nello stesso tempo e insieme l’essere sé e l’esistere sé, fatti uno secondo l’ordine dello spirito.
Qualcosa di analogo avviene tra me e il mio interlocutore ai fini della costruzione dell’unità-distinzione con lui. Quando io vado dal mio interlocutore per donargli me stesso ed egli lo accoglie, allora io spontaneamente e sorprendentemente ‹vedo› me stesso vissuto da lui: vedo me e vedo lui come me; vedo lui e capisco meglio me, anzi, capisco lui unito a me ed io ordinato all’unità con lui. In questo caso è evidente che l’unità è cresciuta, ma che nello stesso tempo anche la distinzione è più grande, come un aumento del particolare di ciascuno assunto nell’unità. Nel caso invece che non avvenisse in questo modo, bisognerebbe concludere che io sono andato da lui, non per donare me, ma per imporre me stesso oppure, per necessità, di sottopormi al suo dominio. Nel primo caso questa imposizione mi fa vedere ancora me stesso, ma solamente me, e non un me accolto e vissuto dall’altro, al punto che se il rapporto assomiglia ad una unità lo è solo in apparenza e più propriamente consiste in una confusione; mentre se io vado dal mio prossimo per necessità cerco un me stesso in un diverso da me che non ha ricevuto il mio dono, ma la mia pretesa e, anche in questo caso, non c’è unità, ma un supposizione falsa e artificiale.
Da questo schema che descrive come avviene la pratica dell’unità è facile risalire al significato ed al valore dell’unità, illustrandola per se stessa come idea. Abbiamo visto che l’unità consiste nel vivere sé nell’altro e l’altro in se stessi, in questo senso si parla di distinzione e solo secondariamente di unità ma, poiché la distinzione è vissuta da due che sono diventati uno si può parlare di una unità che ci fa conoscere non due persone, ma l’‹uomo› dei due, ovverosia l’‹idea› dei due singoli uomini. Non si tratta di una idea immaginaria, o costruita artificialmente, o ricavata per estrazione dall’uno e dall’altro, ma di una realtà, che ha il suo fondamento in re, ovverosia nell’unità, che consiste nel vivere l’altro nell’uno e sé nello stesso uno, perché i due si sono fatti dono l’uno per l’altro. Con parole diverse, questo dono reciproco ha fatto diventare la distinzione unità e i due diversi sono diventati l’‹uomo› unico, che non è solamente idea, ma è soprattutto ‹ideale›. Si tratta di quell’uomo scelto insieme dai due che è ‹vero› e non solo veritiero, perché è riconosciuto confermato ed ‹eletto› da ciascuno dei due singolarmente e, nello stesso tempo, insieme.
È questo riconoscimento di sé nell’altro e dell’altro di riflesso in sé che traduce la virtù dell’unità in quell’ordine che é la premessa e il compimento dell’unità stessa. Senza la virtù della fiducia, della dilezione e della speranza, non c’è nemmeno l’unità, ma semmai una organizzazione artificiosa di persone necessitanti oppure necessitate da altri pochi che la impongono altrettanto artificialmente.

Uno - molteplice

Differenza tra unità e insieme
Tra la parte e il molteplice c’è sempre contraddizione quando si considera l’una si esclude l’altro e tra i due c’è una frattura invalicabile. In altre parole non si può scegliere la parte se si vuole afferrare il molteplice e viceversa. Questo, tuttavia solamente nel regno dell’esperienza, ovverosia in quel mondo che appartiene a un esistere senza unità con lo spirito e l’essere. L’uomo che si ferma con le sue considerazioni nell’analisi deduttiva della realtà seziona l’insieme in tante parti e studia quali siano le condizioni del loro rapporto.
Egli, invece, può anche usare il procedimento inverso. In questa seconda evenienza egli può inseguire i rapporti che le parti hanno tra loro per conoscere il loro costituirsi in un insieme ma, in questo caso, deve rinunciare a fermarsi sul particolare. C’è infine una terza possibilità. Egli può ordinarsi in seno alla realtà e può conoscere una realtà ordinata.Quando analizza definisce e si separa dall’insieme.
Quando sintetizza unisce, ma egli non fa ancora parte dell’insieme. Quando invece si ordina trova nello stesso tempo anche il suo posto nell’unità e non rimane un osservatore estraneo dell’insieme.
Che differenza c’è tra unità e insieme?
Nell’unità c’è anche l’intervento dello spirito e l’opera delle virtù. Il rapporto basato sulle virtù non è solo analitico o sintetico, ma è nello stesso tempo elettivo ed estensivo, ovverosia è comprensivo.
Per capirlo non basta la sola ragione, ma è necessario il giudizio analogico, che non è solamente analitico. L’analogia permette di vedere un disegno che si può sempre ritrovare nelle particolarità e nello stesso tempo nell’unità. In questo senso, lo spirito con cui ci si rivolge alla realtà è giusto ovverosia rispetta le realtà nelle proprietà del loro essere e quindi valorizza le particolarità, ma non le separa in parti e, nello stesso tempo, è magnanimo e non preclude il loro estendersi in una unità per mezzo dell’esistere. Mentre qualsiasi definizione logica separa e ogni proprietà potenziale definisce, lo spirito invece non si ferma in un condizionamento, ma accompagna ogni definizione al compimento dell’unità.
L’esempio tipico (analogico) è quello dell’amore di una mamma che ama ciascun figlio come se fosse l’unico particolare del momento, ma non si dimentica degli altri, perché con lo stesso amore e nello stesso tempo, ama tutta la sua famiglia nel suo ‹essere›, che è una unità indivisibile.

giovedì 11 marzo 2010

Partecipazione

La partecipazione è distintiva per l'uomo
L’uomo partecipa gli animali non partecipano.
I significati del termine ‹partecipare› sono per lo più tre: 1) di prender parte a, 2) di mettere a parte di, 3) di fruire della partecipazione, di godere insieme.
Il primo significato riguarda in modo speciale il rapporto dell’uomo con il suo simile o con le realtà per quel che si riferisce al loro ‹essere› e quindi al proprio della loro natura per quanto le sue facoltà lo permettono.Il secondo significato chiama in campo un ‹esistere› insieme offrendo una proposta che non può rimanere senza una risposta.Il terzo significato presuppone un ordine nello ‹spirito› dei rapporti perché responsabilizza il soggetto nei riguardi del suo interlocutore creando un clima dove la partecipazione diventa comune.
La partecipazione è la nota distintiva dell’uomo che lo differenzia dagli animali e che lo rende, per così dire, quasi uguale a Dio. Gli animali non hanno la capacità di partecipare perché anche se 1) si rapportano secondo natura, 2) non sanno proporre e non si aspettano risposte adeguate alle diverse domande, ma soprattutto 3) non sono felici nel rapporto, ma solamente soddisfatti.
Il terzo motivo è sintomatico. Un uomo che sta male cerca aiuto dal suo simile e chi vede un suo compagno di sventura ne ha compassione come di se stesso, mentre un animale ammalato o infortunato non spera di essere aiutato, anzi si isola aspettando di guarire, perché se rimane nel branco verrà sottoposto a mobbing fino al punto di essere eliminato anche fisicamente.
Dio, rivolto fuori di sé, non partecipa perché non può attendere delle risposte, ma crea. La creazione quindi non dipende dalla creatura, ma è opera di Dio che ha agito senza l’apporto di un qualcosa esterno a se stesso. In questo senso Dio non poteva creare che qualcosa-simile a sé, perché non aveva altri modelli su cui basarsi. Questa ‹analogia› rappresenta l’unica partecipazione possibile di Dio nei riguardi del creato. Analogia è di più di partecipazione, perché è senza limiti. L’uomo è chiamato a rispondere a questa analogia superando i suoi limiti possibili in modo che la sua ‹somiglianza› con Dio diventa partecipazione.