Gli Spartani e gli Ateniesi
Qualche tempo fa alla televisione una decina di scienziati della storia, professori di università famose, hanno raccontato la guerra del Peloponneso tra il 431 e il 404 a.C. fra Atene e Sparta per l’egemonia sulla Grecia. Come al solito i contendenti erano convinti di avere il diritto di imporre i propri usi e costumi come se fossero i più giusti senza negare le convenienze pratiche e i vantaggi economici che ne sarebbero venuti se fossero riusciti ad imporli e, sempre come al solito si trattava di essere di destra o di sinistra, ovvero più liberali o più austeri
La guerra segnò il declino delle città stato perché, come in tutte le guerre, non vinsero i contendenti, ma vinse la discordia e perse la civiltà. Il racconto dei nostri professori aveva l’intenzione evidente di dimostrare la tesi che Sparta retta da un ordinamento meno liberale, ma più rigido, caratterizzato da un’etica intransigente animata da costumi irreprensibili finì malamente i suoi giorni senza lasciare traccia di sé, mentre Atene retta da una ideologia democratica più tollerante e più possibilista, pur ridotta in macerie lasciò, nei ruderi rimasti, le tracce di un’arte e di una civiltà imperitura.
Probabilmente gli Spartani con le loro virtù non avevano tempo di costruire i monumenti e, allo stesso modo, con le loro discussioni gli Ateniesi erano spinti a mettere in mostra la loro tecnica con altrettanta arte; quel che è meno evidente è a cosa sia potuto servire una tale disparità di costumi, a meno che qualcuno sostenga che la troppa moralità e la troppa liberalità servano solamente per incentivare le guerre. I nostri professori sostenevano come l’una e non l’altra delle due civiltà dovesse necessariamente prevalere, tanto è vero che, a parer loro, solo Atene aveva lasciato un ricordo di sé. Il fatto poi che tutte e due ebbero lo stesso destino di morte non è stato nemmeno preso in considerazione.
È sorprendente come chi è sicuro d’aver ragione escluda facilmente che di ragioni ce ne possano essere tante, al punto di non ammettere che ve ne siano altre più comprensive. Nessuno dei professori pensava che se ci sono due costumi, due convenienze e due ideologie non debbano necessariamente escludersi a vicenda senza nemmeno immaginare che possano concorrere alla ricerca, se non di una perfezione, almeno di un completamento reciproco al posto di eliminarsi a vicenda. Tutti pensano che il proprio parere è il migliore e per questo quasi tutti finiscono per farsi la guerra con l’intento di imporre quel che a loro sembra preferibile, mentre pochi avvertono che il ‹bene› sta nella pace che accorda gli sforzi non solo per raggiungerlo insieme, ma anche per definirlo, al posto di costringerlo entro limiti scelti arbitrariamente.
In una parola, è più facile trovare un uomo, o un partito, o una politica che si credono perfetti al punto di far la guerra per imporsi, al posto di cercare insieme il Dio della perfezione che è sempre più conveniente per gl’imperfetti, ma anche per i professori.