venerdì 24 settembre 2010

Un filosofo in due parole...

e con un po' di umorismo. 
Hume: come usare la ragione per evitare i problemi al posto di chiarirli.
Kant: come rifugiarsi nella propria ragione soggettiva.
Hegel: come avere una risposta pronta che vada bene sia per affermare sia per negare.
Fichte: come usare la ragione per voler ragionare.
Platone: come riconoscere un ideale, anche se non si dovesse raggiungere mai.
Nietzsche: come avere una ragione superiore ad ogni buona ragione.
Cartesio: come affrontare un mondo problematico senza problemi.
Macchiavelli: come ottenere in qualsiasi modo quel che non sarebbe mai permesso.
Schopenhauer: come mettere un po’ di volontà ragionata dove si avrebbe dovuto metter un po’ di ordine.
James: come trovare una ragione per tutto quello che si fa.

‹Cattiva conoscenza›

Conoscere una realtà distrattamente, senza alcun coinvolgimento e senza obbligo, equivale alla miglior dimostrazione della mancanza di qualsiasi importanza della sua esistenza o non esistenza, al punto che se ne può far a meno come se non fosse mai stata vista; al contrario rivolgersi ad essa con attenzione e con affetto impedisce che la si possa poi accantonare, perché esisterà sempre per chi l’ha conosciuta, indipendentemente da come essa si sia mostrata.
Una predisposizione positiva avvia la conoscenza alla comprensione delle realtà come ‹ideali›. Pur cominciando da una conoscenza superficiale e distratta si può arrivarne ad una che comprende gli ideali, ma se ci si ferma a metà strada, si possono comprendere solo i concetti, ma non le idee della realtà e del suo essere-esistere È il coinvolgimento che ci assicura di conoscere cose concrete e quindi idee vere. Per questo concetti e immagini possono anche essere solo delle immaginazioni che dipendono da una ‹cattiva conoscenza›, come quelle cattive azioni che dipendono da una ‹cattiva coscienza›. 
Il mondo che ci circonda o è fatto di ideali che restano, oppure di immaginazioni che si dimenticano. È vero che senza idee non ci sono ideali, ma è più vero che senza ideali non ci sono nemmeno idee vere. Di per sé non c’è una contrapposizione tra idee e ideali ma, se le une sono disgiunte dalle altre, la realtà potrebbe anche esistere, ma ‹come se› non esistesse – ‹als ob› di Kant. D’altra parte nessun uomo può vivere senza le cose che lo circondano e, per questo, uno dei possibili rimedi alla mancanza di ideali lo cerchiamo come un ripiego nel possesso delle realtà per fermarle e usarle a piacimento e questo consiste nella definitiva riduzione ai soli concetti. Dal possesso al controllo e dal controllo al dominio il passo è breve. La realtà che è necessaria diventa in questo modo condizionata da un dominio e condizionante a causa dell’uso che se ne fa. 
L’uomo è chiamato a costruire un mondo di ideali oppure è costretto a rovinare nella miseria di infinite necessità. 
È eletto per raggiungere l’Ideale degli ideali o per piombare nell’inesistenza di ciò che non ha senso e si consuma in un attimo di inesistente esistenza.

mercoledì 8 settembre 2010

Una dimostrazione completa dell’esistenza di Dio

la dimostrazione dell’esistenza di Dio non si basa solamente sulla evidenza dei suoi attributi, ma anche, e forse soprattutto, sull'analogia di questi attributi con quelli propri dell`uomo.
La dimostrazione dell’esistenza di Dio che si basa sul riconoscimento dei doni che da lui abbiamo ricevuto può sembrare incompleta e per qualcuno non del tutto inoppugnabile. Si potrebbe obiettare che quel che il singolo ha ricevuto in dono è stato negato ad un altro e che quindi il donatore sarebbe ingiusto il che equivale a negare la sua divinità.
Quel che completa e toglie ogni dubbio all’onnipotente giustizia di un Donatore-Amore sta in una analogia tra l’amore di Dio e quello che noi stessi viviamo. Se noi amiamo sempre, o almeno ci disponiamo ad essere sempre nell’amore, non per questo riusciamo a soddisfare le esigenze ingiuste, ma d’altra parte non possiamo dubitare dei nostri sentimenti perfino nei riguardi degli ‹ingiusti›, anzi, un’ulteriore riprova del nostro amore sta proprio nella premura di costruire attorno a noi un mondo di bontà che supera i particolarismi e le convenienze utilitaristiche.
In questa visuale, bisogna chiederci se l’amore di Dio può essere così sconsiderato da approvare le ingiustizie e favorire tutti senza discernimento.
Al contrario, se i doni di Dio ci inducono a costruire amicizia ed accordo, come se noi stessi fossimo un prolungamento del suo amore per i nostri simili, allora non possiamo più dubitare di un Dio che vuole amare perfino con il nostro concorso.
In effetti, come i doni che riceviamo sono un dato di fatto e non una astrazione o una deduzione da idee dogmatiche, così anche il nostro usarli per amore, completa in modo irrefutabile la creazione e la provvidenza di Dio a dimostrazione della sua esistenza. In altre parole, mentre i doni ricevuti certificano un donatore personale ma non imparziale, il dono ricevuto di essere amore a nostra volta, come egli è Amore, ci assicura dell’esistenza di un Dio non solo personale e magnanimo ma anche universale e giusto.
Dio non ci ha trattati come dei servi che partecipano alla mensa del padrone, ma come figli che partecipano della paternità del padre.
Una dimostrazione dell’esistenza di Dio che si ferma al riconoscimento dei doni ricevuti personalmente, senza essere completato con la visione di quelli che egli non limita nei riguardi di alcuno, con il nostro concorso, non può forse soddisfare una razionalità concettuale non del tutto purificata dall’erotismo, ma può rassicurare sempre chi possiede una conoscenza eidetica (degli ideali) e, in ogni caso, chi con la purezza delle virtù rimedia alla non completa chiarezza delle ragioni.

venerdì 3 settembre 2010

La vita dell’immortalità


Il problema dell’immortalità dell’uomo non consiste nel chiedersi se alla fine dei suoi giorni cesserà la vita, ma nel sapere quale vita lo attende, ovverosia che cosa cesserà e, invece, che cosa continuerà...
Si tratta di sapere che cosa noi intendiamo per vita e per morte. È evidente che l’uomo compiuti i suoi anni muore e muore per sempre, ma è questa la morte che intendiamo, oppure c’è un’altra vita che noi non conosciamo del tutto per il solo fatto che non la viviamo ancora?
In effetti quando noi, ancora piccoli, abbandoniamo le favole moriamo ad un mondo immaginario e ci buttiamo in quello della realtà, viviamo una vita che le favole ci impedivano di sperimentare. Così, quando abbandoniamo il mondo dell’erotismo entriamo come amministratori corresponsabili e quasi comproprietari in quel mondo che è privo dei limiti dell’egoismo.
Allo stesso modo, quando perdiamo il possesso delle realtà e, con la morte fisica, anche di quella realtà che è il nostro corpo, ci liberiamo dai vincoli di una conoscenza condizionata e dipendente dalla sensibilità per sperimentare quella di un mondo diverso. È quel mondo nuovo, dove vale chi ama l’Amore per la realtà e non la realtà ricevuta e conosciuta, magari senza amore.
Questa è la vita vera e non quell’altra che conduciamo sulla terra e che ci sembra mancare in continuazione tanto è limitata alle sole cose che non durano in eterno.

La verità è semplice

La verità non è solo corrispondente, ma anche consenziente...
Qualche giorno fa ho scritto un appunto di filosofia intitolato: ‹Idee-verità per Platone›.
La verità è semplice e si può spiegare in due parole senza scrivere dei trattati ma, per arrivare alle due parole, almeno un articolo sarebbe necessario. Ora io dico qui le due parole, poi chi vuole mi può chiedere l’appunto un poco più esteso.
La parola ‹verità› richiama quella di ‹corrispondenza›.
‹Corrispondenza› è un termine che non si riferisce ad una ragione, ovverosia non è esplicativo o conveniente e nemmeno opportuno, ma indica un ‹ordine›. La verità non è tanto una risposta ragionata, ma soprattutto una risposta analoga che considera le realtà come simili e non le conosce solo come qualità fenomenologiche. La ragione è comunicativa e logica, l’ordine è consenziente e analogico, ovverosia consiste in una traccia che può benissimo servire alla ragione, ma che funge da ‹regola› del suo cammino logico. Se si ammette che la verità per essere tale deve essere insita in un ordine si capisce subito che non è estranea all’ambito della morale e non di pertinenza esclusiva della logica e, in questo senso, prevede l’intervento delle virtù infuse (vedi anche qui sotto: ‹Ordine, ragione, verità›).