sabato 13 febbraio 2010

Analogia


Analogia - analisi

Come l’analisi è il metodo usato dall’esistere per conoscere, l’analogia è il metodo tipico dello spirito per ‹riconoscere›, ovverosia approvare. Consiste in una rappresentazione della realtà non per l’esame delle qualità, ma per la stima del reciproco ordinarsi delle qualità dell’oggetto percepito. Per esempio, il cuore che porta il calore del sangue fino alle ultime cellule del corpo assomiglia alla sede dell’amore che riscalda ogni relazione umana. ‹ la strada diritta è la più breve › vale sia per le lontananze fisiche, sia per le differenze di significato, sia per le stime di valore, perché rileva una somiglianza di ordine tra cose non omogenee, ma omogeneamente ordinate. In pratica permette di usare una misura per una stima tra cose non omogenee che di per sé non si possono misurare con lo stesso metro, ma solamente nello stesso modo.
Si tratta di una sorta di paradigma estratto dall’ordine naturale da cui si può ricavare un metodo di conoscenza altrettanto naturale.
Anche la logica paragona le conoscenze e quindi anche l’analisi esamina le qualità delle relazioni e dei rapporti ma, per così dire, in un modo disinteressato e lontano, mentre la riconoscenza usa le conoscenze dell’analisi non più per ditinguerle secondo le apparenze, ma per stimarle secondo il valore ma, così facendo adombra l’analisi e invece usa l’analogia. in questo senso, mentre l’analisi mette in luce una verità che dipende da una corrispondenza logica, l’analogia invece ‹ama‹› una verità che dipende da una corrispondenza volitiva o affettiva o meglio, spirituale. In pratica l’analisi vede la distinzione e l’uguaglianza, mentre l’analogia sente l’unità e la risonanza.
Una madre vede suo figlio simile a sé perché gli vuol bene e non per via di un ragionamento logico, anche se non si può dire che sia senza ragione. La differenza tra le due perceziopni consiste non in una diversa conoscenza del figlio – o in una conoscenza di un figlio diverso –, ma in una riconoscenza più profonda che è ‹ordinata› alla comprensione ‹ideale›. In questo senso si può parlare di «una forma di argomentazione induttiva» e non deduttiva. In altre parole mentre la sola ragione di un uomo analizza, lo stesso uomo tutto intero, composto di ragione e di affettività, ‹induce›, ovverosia compone e costruisce una conoscenza concreta nel senso di acquaintance. Una conoscenza induinduttiva è sinonimo di valorizzante. La sua caratteristica è quella di essere ‹ordinata› ad uno scopo. Si tratta di un ‹ordine› che è generale, o meglio universale che, pur non essendo contrario alla ragione non dipende da essa, ma anche dalle virtù dello spirito che valorizzano la stessa ragione. La mamma vede il figlio simile a sé perché lo ama ed ha fiducia in lui, non perché lo abbia analizzato scientificamente sezionandolo nelle sue parti e soppesando le sue possibilità. L’analogia evidenza non le parti distinte di un insieme, ma le distinzioni di una unità, ovverosia è mossa da una visione completa e globale, perché ordinata in se stessa e, per questo, può essere sicura di trovare persino quel filo logico che la conduce ad una conoscenza degli ‹universali›. Non è mancare di conoscenza ‹credere› che quel che ‹vale› per me, potrebbe valere anche come legge e norma di un ordine generale riferito a cose e a persone ben diverse da me stesso. Senza un ordine generale non esiste alcun rapporto nemmeno tra le stesse cose cosiddette materiali e quindi persino ogni conoscenza logica diventa illogica. È questo il motivo di chi mette in dubbio ogni asserzione che non sia la propria, al punto di sostenere che la sua è l’unica vera, anche se questa affermazione è più logica sulla bocca di chi non ragiona e non su quella di un uomo normale.
Questo modo di considerare l’analogia permette anche una comprensione di come sia facile confondere ‹potenzialità› che si esprime nelle cause con ‹forma› che ordina le stesse cause, o meglio, che considera le cause ‹ordinate› ad uno scopo. Aristotele stesso potrebbe sembrare poco chiaro nel distinguere cause da forma, e forma da potenza se, ancor prima non riconosce la diversità nell’uomo delle tre ‹distinzioni› che lo compongono in unità: l’essere, l’esistere e lo spirito. Una ulteriore mancanza di chiarezza potrebbe venire ancora dal fatto di confondere lo spirito con l’anima, con il risultato di cercare un’anima dove esiste invece uno spirito, o peggio, di trovarla nell’intelletto, o magari ridurla solo a «pensiero di pensiero». In pratica bisogna chiedersi se l’uomo che trova motivo al suo operato nella sola ragione, quasi dimenticandosi della affettività ed della volontà, sia ancora da considerarsi uomo e non un robot fabbricato da un ‹Orologiaio› senza amore, ovverosia da un dio che non esiste.

Conoscenza - riconoscenza


Le note della conoscenza e della riconoscenza
La differenza fondamentale tra conoscenza e riconoscenza consiste nel fatto che la conoscenza acquisisce le immagini, i significati e le idee, mentre la riconoscenza percepisce le amabilità, le affidabilità e gli sperabili o, in altre parole, la conoscenza vede i limiti, le differenze, le corrispondenze, mentre la riconoscenza apprezza il buono, l’amichevole e il bello. Per esempio chi non si accorge che una cosa è diversa vede poco chiaramente, mentre chi non si commuove nei riguardi dell’amico sente in modo apatico e confuso.

Psicologismo - intellettualismo


Con il termine di psicologismo il più delle volte ci si riferisce ad una filosofia che invece è psicologia. La psicologia sarebbe una scienza che studia le tecniche dei buoni rapporti tra persone, mentre non considera di proposito le ragioni e i sentimenti che reggono queste relazioni, sebbene questo assunto è più teorico che pratico. C’è anche una filosofia della psicologia che più propriamente consisterebbe nella morale, ma questo termine è alle volte usato dalla filosofia in un modo intellettualistico che, per l’appunto, vede tutto come psicologismo quel che riguarda la psicologia.

giovedì 11 febbraio 2010

Antropologia - religione







Lo psicologo e il medico possono credere?
(intervista)

La fede ha qualcosa a che fare con lo sviluppo culturale e affettivo dell’uomo? In altre parole chi crede, per questo solo fatto, deve essere considerato più o meno uomo di colui che preferisce non affrontare questo argomento? I diversi sistemi religiosi condizionano la differente psicologia personale e sociale?

Sono questi forse gli interrogativi più comuni riguardanti la cultura ed in genere l’antropologia moderne.
La battaglia navale di Lepanto e la liberazione dell’assedio di Vienna più che determinare il predominio degli stati europei nell’area mediterranea, sembrò sancire i confini e la divisione tra la cultura occidentale e quella mussulmana, mentre inaspettatamente si aprivano ai conquistatori del vecchio continente nuove vie della comunicazione umana sulle grandi rotte oceaniche, fino allora del tutto sconosciute.
La situazione odierna sembra invece essere affatto contraria: non esiste cultura, perfino tra le più lontane, che non sia diventata vicina di casa nostra, basta pensare che una delle più belle e moderne moschee d’Europa si trova proprio a Roma, il centro della cristianità e che un quartiere di Duisburg è diventata una delle più grandi città mussulmana della nostra Europa.
Non ci sorprende quindi una domanda che si affaccia spontanea alla nostra riflessione:

Quale destino culturale attende l’umanità di oggi?
Se è tanto difficile da sembrare impossibile una sintesi delle grandi correnti del pensiero contemporaneo si può almeno desiderare un avvicinamento delle varie culture tra di loro senza contrasti e senza esclusioni? A questo punto la psicologia ci può offrire degli elementi che ci aiutino a risolvere questi quesiti?

Il compito della psicologia non è quello di affrontare direttamente questi problemi, eppure molti psicologi cominciando da Freud non hanno potuto eliminare dalla riflessione scientifica ciò che riguarda la religione e le religioni, tanto coinvolte con il psichismo umano, per cui non è senza motivo attenderci da essa contributi e chiarimenti non secondari in questo campo.
E perché abbiamo nominato Freud, da lui vogliamo prendere l’avvio.

Quale è stato il suo apporto?

E’ difficile valutare la sua importanza oggi. Molte delle sue teorie sembrano col tempo esser state superate, eppure perfino dal linguaggio comune non si possono più eliminare parole come inconscio e complesso di Edipo, che hanno trovano il lui l’origine della loro popolarità. Uno degli appunti che gli si muovono è di aver visto spesso l’uomo in balia di forze incontrollate ed incontrollabili. L’inconscio è stato valutato qualche volta in un modo negativo, quasi la causa di una certa ineluttabilità del comportamento umano che sembrerebbe strutturato in un modo immodificabile, ma Freud stesso, che ne ha scoperto l’enorme importanza, era pur sempre un medico, che nel sottolineare quello che non andava, pensava tuttavia a come rimediarlo, nel constatare la malattia, sapeva o almeno voleva guarirla; quindi nelle sue impostazioni scientifiche non ammetteva niente di fatale e inevitabile.
Ma c’è tutto un altro aspetto dell’inconscio per così dire positivo.
Lo si può considerare come una specie di archivio d’impresa del nostro pensare ed agire, quasi una base sicura su cui noi possiamo costruire le nostre riflessioni e i nostri comportamenti fisiologici, in altre parole normali e comuni a tutti. In questa riserva a disposizione di ogni uomo, lo stesso problema religioso sembra essere così generalmente radicato che Jung, un discepolo di Freud, asseriva: “Possiamo tenere un bambino all’oscuro di tutti i miti esistenti, ma non possiamo privarlo del suo bisogno di mitologia”, come se volesse dire che anche chi non ha sentito parlare di Dio avrà sempre tuttavia una certa innata tendenza a figurarselo, cercandolo, senza fatica, nel suo inconscio.

E per il complesso di Edipo?

Lo si deve considerare un apporto di una portata forse non sempre compresa anche ai giorni nostri.
L’uomo nel contatto con il suo interlocutore non si limita a questo unico rapporto, che intrattiene in quel momento con lui.ma tiene presente, anche se inconsciamente ed indirettamente, nel medesimo tempo, la realtà nel suo insieme. Non esiste un rapporto a due che non sia sempre a tre. Il bambino fin dalla nascita ha un rapporto con la madre gratificante e indispensabile. Ebbene, almeno cominciando ad un certo punto della sua crescita, questo non può avvenire fuori del complesso di Edipo. Nella sua relazione con la mamma non può prescindere da quella con il padre, che egli può considerare un intruso o un rivale, un terzo amato oppure temuto, al punto di volerlo eliminare oppure doverlo accettare definitivamente.
Questo processo inerente al suo sviluppo e che lo determina non avviene senza una elaborazione alle volte generatrice di ansia e di angoscia.

Quindi questo stadio presenta una componente negativa?

Bisogna dire a proposito che la psicologia non è la scienza dei perché e degli scopi dell’uomo, ma delle modalità per poterli realizzare.
In questo senso positivo o negativo va inteso in ordine al raggiungimento di un equilibrio psichico non traumatico, quindi senza angosce, ansie e paure. Se quindi dopo aver superato il complesso di Edipo si arriva ad uno stadio di maggior equilibrio, di una ulteriore omeostasi psichica, non può che essere valutato positivamente.

D’altra parte non si può negare che per il bambino questo sia un periodo critico. Come trova la possibilità di uscirne senza danno?

Anzi con tutti i vantaggi che possono venire da una specie di vittoria su questo campo di battaglia delle sue forze e delle sue pulsioni.
Egli ha a disposizione diversi meccanismi che imparerà ad usare e che gli serviranno in un modo inconscio durante tutta la vita, ogni volta che si troverà in quelle situazioni, che si possono paragonare in qualche modo a quelle del complesso di Edipo. In questo senso essi possono diventare una specie di schema per affrontare le relazioni non solo del bambino con il genitore, ma anche dell’uomo con il suo altro e quindi anche con Dio.
La religione non può dipendere da schemi psicologici, ma questi in certi limiti possono servire a chiarirne alcuni suoi aspetti, tanto da poterli considerare come una sorta di parabole dei giorni nostri.
Uno di questi è l’identificazione.

Cosa intende per identificazione?

Si tratta di un meccanismo che protegge l’ambito conscio da ciò che è penoso e dagli impulsi inaccettabili, come quando il bambino considera nel suo inconscio il padre come un rivale.
In questa situazione egli vede la sua figura in un modo che corrisponde alla realtà o che è invece immaginario?
In altre parole è quella di un padrone nei riguardi del figlio e della madre, oppure di un padre e di un marito che ama l’uno e l’altra?
Se il bambino fino a questo punto si è sentito unito alla mamma in un modo quasi fisico e sensibile, come se essa fosse una parte del suo corpo di sua proprietà, penserà che anche il padre ha una relazione simile con essa e lo considererà un intruso.
Ma perché egli viene amato dal padre che stabilisce con lui non una relazione di possesso, ma di affetto, imparerà a sua volta a vedere la madre nello stesso modo.
Egli allora comincerà a capire che egli non la possiede come una proprietà, che egli non ‘ha’ una madre, ma che egli può ‘essere’ un figlio, allo stesso modo del padre che non possiede la moglie , ma fa di tutto per essere il suo marito ideale.
Il comportamento del papà verso il bambino diventa un esempio per lui di come trattare sia la mamma, sia poi anche le altre persone a cui rivolgerà successivamente la sua attenzione.
Quando il padre, per esempio, dirà al bambino: “Andiamo a tavola per il pranzo, la mamma ci chiama…”, da una parte il piccolo sentirà nel cibo preparato le cure della madre per tutte e due, dall’altra imparerà a corrispondere adeguatamente ad esse. Quindi nelle fasi successive della crescita, specialmente durante quella critica della pubertà, giudicherà i suoi genitori per le esperienze che ha condiviso con loro ed imparerà a trovare in se stesso una nuova responsabilità dei suoi comportamenti.
In un certo senso impara a poco a poco ad essere egli stesso ‘padre’, ma per arrivare ad identificarsi con lui deve essere aiutato, in questo processo, dalla madre stessa, che con il suo comportamento indica il padre al figlio, astenendosi dal considerare l’uno o l’altro sua proprietà, e quindi non escludendoli tra di loro, rivolgendosi, per esempio, al figlio come se il padre non esistesse, oppure trattandolo come un fastidio, interposto tra lei e il marito.
Il risultato è che il bambino costruisce sempre di più la sua personalità con quelle caratteristiche che gli sono proprie, ma nello stesso tempo egli è del tutto il padre con tutte quelle sue prerogative che lo fanno diventare indipendente e senza la necessità di ricorrere a lui per soddisfare i suoi bisogni.
Mentre se il padre si mostra annoiato o reticente…, e questo può succedere, o se il bambino non imparasse la lezione, o se la mamma non gliela impartisse, allora egli potrebbe sviluppare una personalità non del tutto armoniosa, al punto di aver bisogno da adulto magari di uno psicologo che lo curi.

Non mi potrebbe fare un esempio pratico?

Le conseguenze di questo processo si estendono alle età successive, come nel caso che ora le riferisco.
Il figlio ormai adulto, di una mia conoscente venne accusato, senza colpa e ingiustamente, dal padre, psichicamente ammalato, di una grave mancanza con tutte le inevitabili conseguenze pratiche. Per questo era ormai sul punto di lasciare amareggiato la sua famiglia. La mamma per cercare di tenerselo vicino, e per riconciliarlo con il marito, faceva di tutto per scagionare quest’ultimo e pregava il figlio di comprenderlo e di scusarlo, malgrado lei stessa si trovasse senza avere nemmeno più un vero marito, ma solo una persona da assistere e da proteggere.
Come avrebbe potuto reagire costui alle sue insistenti preghiere?
Se fosse rimasto sulle sue e avesse preteso delle soddisfazioni, non avrebbe certamente trovato un accordo né con la madre, né con il padre. Se avesse risposto: “Va bene è una penitenza da fare per non perdere la pace”, anche in questo caso la sua situazione non sarebbe cambiata di molto.
Se invece si fosse messo dalla parte di lei e avesse fatto proprio il suo dolore, avrebbe potuto dire: “Hai ragione, povero papà è stanco per il lavoro!”, e in questo caso le sarebbe stato talmente di aiuto, da sostituire in qualche modo il marito che mancava, ed essere così diventato, passi la parola, padre di se stesso, e per di più, facendosela in un certo senso così sua alleata, avrebbe persino potuto trovare qualche vantaggio insperato.
Questo comportamento è appunto il frutto dell’identificazione. Esso non avrà dei riflessi evidenti solamente nei riguardi dell’ambiente in cui uno vive, ma per un certo verso anche nel campo della religione.
Una persona del genere si troverà nel contatto con la natura, il lavoro, i conoscenti, con i suoi stessi impulsi, sempre con quel rapporto a due che non può e non vuole escludere la presenza di un Terzo misterioso sì ma vicino, che egli vede come quell’ideale con il quale egli desidera di unificarsi.
Si può dire che per l’uomo normale non esiste un contatto con la realtà materiale, che non sottintenda e non comprenda anche quella divina.
Questo non dice che cosa si debba intendere per ‘Realtà divina’, ma solamente che l’uomo oltre a quel che vede e sente avverte e intende un’altra presenza nel suo inconscio, sulla quale non sempre si ferma a riflettere, ma che nemmeno può facilmente dimenticare e che contribuisce a determinare le sue decisioni ed il suo comportamento.

Ma se ci riferiamo al modello che lei ci ha proposto come è possibile pensare ad una ‘identificazione’ da parte dell’uomo con Dio? Un simile programma non rasenta la bestemmia?

Il termine ‘identificazione’, come qui è usato, non ha un valore filosofico, ma psicologico.
Anzi a questo proposito, prendo l’occasione per sottolineare che tutta l’intervista, sia nel modo di esprimersi che nel contenuto, ha un significato psicologico e non teologico, per il quale del resto io non sono competente, e quindi deve essere valutata in questo ambito.

Comunque si deve dire che le distanze tra l’uomo e Dio rimangono sempre incolmabili, ma non devono mai essere una divisione imputabile all’uomo stesso.
Che può ardire di essere Dio?

Che deve mirare ad essere uno con Dio.
Del resto, se Gesù è Dio, non ha voluto egli stesso far diventare gli uomini suoi consanguinei nella comunione?

Il che ha dei riflessi pratici?

Guardando certi esempi fornitici dai santi si possono trarre delle indicazioni.
Prendiamo madre Teresa di Calcutta. Essa si presenta con una personalità ben stagliata, eppure altrettanto unita a Dio, da farcelo quasi trovare vivo sulla terra, almeno al suo tempo e nel suo luogo. Inoltre sicuramente non evasiva davanti ai problemi materiali, né irresponsabile, se perfino nella preghiera non si tirava indietro dall’azione.
Ma certamente ognuno ha la sua sensibilità ed il suo giudizio per indagare questi argomenti.

Mi sembra una materia incandescente! Ma non esistono altri meccanismi per rimuovere le pulsioni inaccettabili?

Mi ha preso la parola dalla bocca.
Uno dei meccanismi più frequenti e che forse sta alla base degli altri è proprio quello che va sotto il nome di rimozione; in parole povere se il bambino non può tollerare il padre, cerca almeno di dimenticarlo, di archiviarlo nell’inconscio.
Questo processo nel campo della religione potrebbe assomigliare all’indifferentismo. L’uomo davanti al problema di un Dio difficile e sconosciuto preferisce dimenticarlo nella pratica, cercando di fare a meno di lui nel fluire delle sue abitudini di giornata.

Ovviamente ci sono altri meccanismi oltre a questo!

Certamente. Possiamo passarli in rassegna.
La regressione.
Per sfuggire all’ingerenza del padre il bambino può regredire ad uno stadio precedente della sua vita per lui sufficientemente gratificante, quando egli aveva una relazione con la madre esclusiva e, per così dire, fisica.
Certe popolazioni primitive hanno una religiosità con delle caratteristiche analoghe: sembrano ritornare alla natura come se essi stessi fossero con lei materialmente connessi, comportandosi come con una madre nelle cui braccia si sentono ricoverati, tanto da idolatrarla, per esempio, nel sole nelle stelle, negli animali e nei vari feticci che la rappresentano.
Una terza reazione dell’io a livello inconscio trasforma gli impulsi inaccettabili verso il padre nel loro opposto. Così: “Lo odio”, diventa: “Lo amo”.
Forse qualcuno può ritrovarsi in una posizione analoga con Dio, quando per non sapere come uscire dai suoi problemi, si rivolge a lui con degli atteggiamenti di tipo esageratamente pietistico, propri di un baciapile o di una beghina esasperata.
La proiezione invece maschera gli impulsi minacciosi attribuendoli ad altri. In questo modo il: “Mi odia” viene presupposto a giustificare il: “Lo odio”.
Questa posizione potrebbe aiutarci a capire quei fanatismi e quelle persecuzioni, altrimenti inspiegabili, contro la religione o contro i seguaci di altre confessioni oppure, nel caso l’odio sia rivolto contro se stessi, quelle pratiche ascetiche esagerate che non servissero a diventare santi, bensì maniaci.
Un altro meccanismo può sembrare addirittura curioso.
Si chiama razionalizzazione e non è per niente ragionevole, perché con esso si usa una giustificazione per rendere plausibile un comportamento illogico. Un adulto per nascondere il suo desiderio di bere alcolici lo fa valere come una necessità per socializzare e nel caso nostro qualcuno pensa suo dovere partecipare ai riti ed alle feste religiose come espressione della cultura popolare utili, se non necessarie, per quella società che non vuole precipitare nel caos.
Ci sono poi alcuni che paragonano le persone religiose ad una specie di categoria di artisti, perché dicono che ogni forma di pietà è un prodotto di una qualche sublimazione degli impulsi o degli istinti.
Insomma in pratica ognuno di fatto sceglie quell’atteggiamento religioso che più gli aggrada.

Ma questi meccanismi validi per un bambino di tre anni possono essere riportati alla psicologia di un adulto senza ulteriori adattamenti?

Bisognerebbe anche soffermarci più a lungo sugli stadi dello sviluppo del bambino descritti da Freud, ma il discorso ci porterebbe troppo lontano. Comunque egli ammette una regressione in ogni epoca della vita ad uno stadio precedente e quindi a qualsiasi età l’uomo può ritrovarsi in quei problemi che riteneva di aver superato e rivivere le sue angosce cercando ancora di risolverle secondo quello schema che aveva usato in una età passata.
In modo analogo si può pensare che ciascuno possa ritornare a dar valore nel corso della sua vita a pratiche, che in alcune culture sono ritenute superate, mentre in altre sono generalmente accettate, come avviene per esempio quando si dà credito all’influenza di un ‘corno’ sul decorso degli eventi, o si va in cerca della fortuna con un ferro di cavallo, oppure viceversa si teme una iattura: situazioni tutte che sembrano imitare il più elementare dei feticismi, oppure, in un altro campo, quando si aderisce a manifestazioni pubbliche o private perfino esasperate per la squadra del cuore, o per un leader o un cantante, manifestando così una certa disposizione ad una specie di idolatria.
Questa esposizione è interessante, tuttavia potrebbe essere, se non del tutto arbitraria, forse alquanto personale e difficilmente verificabile con un metodo sperimentale, che prenda in esame più i fatti, che non le loro interpretazioni.
C’è un autore più vicino ai tempi nostri, Piaget, che ha studiato lo sviluppo del bambino su basi empiriche, con l’osservazione diretta dei suoi comportamenti nel corso della crescita.
Il suo studio non riguarda tanto lo sviluppo affettivo del bambino, ma pone soprattutto l’accento sul suo progresso intellettivo.
Si tratta quindi di due campi diversi e la parola stadio, per i due autori, si riferisce a situazioni che non sono paragonabili tra loro, ma a periodi diversi dello sviluppo.
Piaget descrive una età psichica in cui il bambino presenta un tipo di intelligenza che egli chiama simbolica o preoperatoria. E la tipica età dei perché.
Essa è caratterizzata da un certo animismo realistico o se si vuole di una rappresentazione della realtà materiale come se avesse una vita, e nel medesimo tempo della realtà immateriale come se fosse una cosa. Per esempio egli può credere che i sogni di notte escono dalla testa e vanno a posarsi sul cuscino oppure che i battelli camminano sull’acqua con le gambe.
Insomma egli tratta le immagini come veri sostituti dell’oggetto.
Ma non è un po’ questa posizione analoga a quella degli idolatri nei confronti di Dio che lo vedono raffigurato effettivamente nei loro feticci?

E quando il bambino cresce?

Dai sette anni fino agli undici - dodici circa il bambino entra in un periodo dove fa la sua comparsa una elaborazione del pensiero basato su delle operazioni concrete.
E’ quello tipico del bambino che si dedica alle raccolte più varie, che vanno dalle figurine ai giochi elettronici. In questo stadio egli sembra acquisire delle disposizioni nuove per la meccanica, la tecnica e la sperimentazione; lo stanno a dimostrare i suoi giochi e le sue preferenze.
E’ facile fare un paragone con i pragmatisti ed i materialisti, che se avessero un Dio, questo potrebbe essere per loro rappresentato dalla scienza o dalla filosofia, con annessa tutta una devozione o una dedizione nella ricerca, nel lavoro e nell’impegno professionale.

Cosa significa? Forse che gli scienziati sono dei ragazzini?

Nel campo religioso alle volte alcuni tra questi si mostrano come delle persone che credono maggiormente a quello che loro stessi fanno che non a quello che ha fatto il Signore del cielo e della terra. Essi considerano il mistero come una provocazione da indagare e da scoprire limitatamente all’ambito tecnico - scientifico. Eppure questa fede nella realtà materiale e questa ricerca sono molte volte senza egoismo; essi sembrano volersi spogliare persino dall’egoismo di avere un Dio.
E’ una fase meno passionale, più fredda, che accetta i dati di fatto e li ingoia continuamente per aprirsi verso una personale responsabilità successiva.
L’uomo si libera così dalle superstizioni della sua età infantile e diventa più capace di corrispondere alle necessità che la sua vita e quella di suoi simili gli propongono. Può arrivare a dare maggiori soddisfazioni a se stesso ed anche agli altri, purché non sia egoista e si mantenga sufficientemente tollerante nei loro confronti.

Il Dio di questa età si trasferisce dalla natura all’uomo.

Come prima le immagini erano i miti oggi sono per lui le scienze.
Ma queste scienze non sono una preparazione alla religione, sono invece esse stesse una religione, perfino quando è espressa come confessione di ignoranza davanti al mistero, e nel medesimo tempo come una delimitazione accettata nei suoi riguardi, accompagnata da una certa elusione dei problemi che esso prospetta.
Il risultato è che per un verso ci sono dei credenti specie tra i grandi scienziati e, per un altro, quelli di loro che si dicono atei si attaccano alla scienza come alla loro unica religione.

Come considera Piaget la fase della pubertà?

Il bambino diventa un uomo: i suoi processi mentali si arricchiscono di simbolismi e di metodi logici che lo portano a diventare più cosciente e responsabile; prende quindi una sua posizione, costruisce le sue convinzioni e le difende davanti ai genitori.
Insomma, nell’ambito del nostro paragone, è pronto a far la guerra per la sua fede, come gli Ebrei, come i Mussulmani.
Si vede in ciò tutto l’impegno e la serietà della scelta del vero ed unico Dio e nel medesimo tempo, per così dire, ancora un po’ di inesperienza di questa posizione, che tradisce una certa debolezza, se per affermarsi ha bisogno più di guerriglieri eroici, che non di martiri generosi.
Il Dio in queste religioni è sempre quello vero, ma forse è considerato ancora quasi in funzione dei credenti, che non di per sé, tuttavia in esse ci sono molti santi a testimoniare la sua opera in loro: persino dei sovrani ‘sanguinari’ (I° Cronache. Cap. 22,8), come Davide, sono diventati dei grandi profeti.
Lei parla di un rapporto dell’uomo con Dio. La domanda conseguente è se si tratta di un Dio vero, oppure invece di una immagine che l’uomo crede essere reale. In altre parole se il Dio figurato negli idoli, rappresentato nelle arti, ipotizzato nelle scienze, pensato nelle filosofie, alla fin fine non potrebbe essere solamente il prodotto della mente umana?
Effettivamente l’uomo anche quando non afferma come talvolta accade di aver costruito egli stesso dio, si comporta tuttavia in altre occasioni come se Dio fosse il ‘suo dio’, come se l’avesse scelto egli stesso, sicuro che non potrebbe essere differente da come egli se lo immagina. Egli si sente gratificato da questa figura che non gli chiede troppo e sembra promettergli tutto e finisce con il pensare che esista realmente così come egli crede.
Rifacendoci alla psicologia, ed in particolare allo sviluppo cognitivo del bambino, c’è una sua esperienza analoga: si tratta del fenomeno del pointing.
Prima ancora che egli abbia imparato a parlare, indica talvolta con la mano un oggetto, che tuttavia non riesce a raggiungere. La mamma che è attenta ai suoi desideri, glielo dà subito.
Egli ha l’impressione di averlo preso con la propria mano perché a questo stadio dello sviluppo non si sente separato nemmeno fisicamente dalla madre, che considera parte del suo corpo, come se essa fosse un suo prolungamento. Per questo il bambino pensa che sia stato lui stesso a prenderlo, anzi nella sua immaginazione crede di aver creato l’oggetto che prima per lui non esisteva.
Questa sua convinzione non annulla tuttavia il fatto che sia stata invece la mamma ad averglielo dato.
Qualcosa di analogo capita alle persone, non più bambine, nei riguardi delle credenze religiose. Esse desiderano di avere un Dio, lo pensano fatto in un certo modo e di fatto lo ottengono come lo hanno immaginato.
Dobbiamo chiederci: da chi lo hanno ricevuto?
Dal Dio vero che in qualche modo si è manifestato a loro, anche se essi, credendosi quasi una propaggine fisica del loro creatore, sono sicure di averlo afferrato con le proprie mani e pensato con la propria testa.
Ma per completare il quadro di questa situazione, dobbiamo parlare di un’altra esperienza che fa il bambino nel corso del suo sviluppo, quando egli vede riflessa la sua immagine nello specchio.
Questa esperienza si rinnoverà in modo diverso nelle varie fasi successive della sua vita: egli vedrà se stesso, riflesso nel volto e nei sentimenti, prima della madre, quindi nelle varie persone che verrà incontrando. In questo modo imparerà per un verso, a relazionarsi ad esse come a se stesso, e per un altro, a distinguere esse da sé.
Se l’esperienza del pointing lo induceva a crede che la realtà fosse parte di sé, quella dello specchio per un verso gliela fa vedere distinta da sé, e per un altro in una relazione stretta di corrispondenza e di somiglianza, per cui egli non si sente allontanato e diviso da essa.
Anche nel rapporto con Dio avviene qualcosa di analogo.
Se il fedele, paragonato al bambino del pointing, andava a cercare in se stesso idee e contemplazioni, quasi come la fonte della sua religiosità, questa esperienza dello specchio lo rende invece consapevole come il suo Dio sia ben diverso da sé, ma non lontano, anzi che egli ha con lui una certa somiglianza, pur unita ad una enorme distanza, per cui egli vede nel suo modo di comportarsi con Dio una certa analogia a come si comporta con se stesso ed in definitiva con ogni suo prossimo, tanto che quasi tutte le religioni propongono la medesima regola d’oro: “Non fare agli altri quello che non vuoi che gli altri facciano a te”, oppure espressa in forma positiva: “Fa agli altri quello che vuoi che gli altri facciano a te”.

Rimane quindi sempre il dubbio che le varie religioni non siano state rivelate da Dio, ma siano piuttosto il prodotto delle varie culture dei diversi popoli. Infatti come potrebbero essere tra loro così differenti, se derivano dal medesimo autore?

C’è un periodo dell’infanzia nel quale il bambino si rapporta con la madre in un modo illusorio, come se la sua realtà fosse quasi il frutto più di un delirio che di una conoscenza; se il suo modo di vederla a quell’età è per lui l’unico possibile, con questo non si deve concludere che essa non esiste, e che quella che egli vede, non corrisponde a ciò che può avere un riscontro pratico.
Altrettanto si può dire del nostro rapporto con Dio: in certe culture o in certi momenti della vita di un uomo può assomigliare a quello che si ha con un feticcio o con un idolo, in pratica con un dio più immaginato che reale, ma in queste situazioni non si deve concludere troppo frettolosamente che si tratta di un fantasma inesistente. Del resto chi può dire di conoscere Dio come veramente egli è?
Insomma sbagliare od essere incompetenti nel rapportarsi con qualcuno o con qualche cosa non costituisce motivo sufficiente per dire che l’oggetto o la persona a cui ci si riferisce è inesistente.
Come abbiamo detto a proposito di Piaget, ogni bambino ha un modo di conoscere che si va sviluppando e che nei primi tempi è ancora imperfetto, come se fosse condizionato da un certo modo di raffigurare la realtà, che pecca di animismo e feticismo.
Per quanto la mamma possa usare con lui un parlare normale da persona adulta, egli capirà quello che gli viene detto solamente e sempre in un modo infantile.
Non possiamo tuttavia né accusare lei di raccontargli il falso, né lui di essere in errore: egli non ha la capacità dell’adulto e la madre deve adattarsi alle sue possibilità per essere capita.
In un modo analogo si possono interpretare le rivelazioni di Dio all’umanità.
Quando essa era ancora bambina e viveva nascosta nelle caverne o peregrina nelle steppe dei deserti, non sapeva dargli ascolto, se non raffigurandoselo come quella immagine che ravvisava in un idolo o in un feticcio.
Non per questo si può dire che essa adorasse un Dio falso, solo perché non sapeva fare altrimenti che vederlo sotto quella forma e nemmeno che Dio le si sia manifestato in quel modo per trarla in inganno. Obbiettivamente si trattava di un errore e di un abbaglio, ma per quel che la riguarda nel suo tempo e nel suo sviluppo culturale, manifestava un suo colloquio con il Dio reale, come l’unico che le fosse dato di conoscere.

Ma per accettare questo discorso bisogna ammettere la pregiudiziale non solo che Dio esiste, ma che egli abbia comunicato agli uomini una rivelazione di se stesso in molte maniere differenti. Come si possono sostenere proposizioni del genere?

Continuiamo nel nostro paragone.
Se qualcuno sente un bambino che rivolto a sua madre balbetta qualche versaccio, potrebbe essere indotto a pensare: “Come si fa a parlare a quella maniera? Certamente il bambino pensa che stia parlando con una persona che lo capisca, forse crede di ragionare con sua madre e invece nessuno, che sia intelligente, lo può prendere sul serio. In effetti egli parla con una persona che crede reale, e che invece non esiste. Egli si rivolge invece a se stesso riflesso in quello specchio che è il volto di sua madre…” e continuerebbe con tanti altri argomenti del genere.
Allo stesso modo si può dire dell’umanità: “Che credeva di adorare Dio come se lo vedesse, mentre invece aveva rapporto solo con un immagine di se stessa…”.
Eppure come la madre per il bambino, così esiste Dio.
L’immagine distorta del bambino e il suo errore nel conoscerla non autorizza a dire che ella non esiste, come i modi diversi ed obbiettivamente incompleti e persino errati di concepire Dio non autorizzano di per sé, né a dire che egli non esiste, né a presupporre che il rapporto sia irreale.
Anzi, se il bambino sbaglia nel modo di rapportarsi alla madre, è proprio questo errore che gliela fa presente, tanto che analogamente si può dire che quando l’umanità fantastica sul suo Dio, sbaglia molto meno di quando essa lo nega.
Permetta che insista: l’uomo potrebbe parlare in modi diversi con Dio e figurarselo sotto diverse sembianze, ma come si può dire che Dio si manifesti in modi diversi ai differenti uomini nelle varie età della storia?
Per rimanere nell’ambito del paragone, anche la nostra immaginazione di una figura divina non esisterebbe se non esistesse Dio.
Se lei chiede al piccolo: “Tua madre è bella?”, egli, per via delle sue limitate capacità cognitive, se lo potesse fare, risponderebbe: “Cosa vuol dire? Mia mamma è il seno che mi nutre!”. Allora potreste dirgli: “Ma essa ha un cuore per amarti, una testa per pensare al tuo futuro?”. Risponderebbe ancora: “Ha due mani d’oro per pulirmi, quando sono sporco.”
Adesso rivolgetevi alla madre e avvisatela che il figlio la vede come quella macchina che gli fornisce il latte e lo pulisce quando deve ed, ecco!, lei protesterà invece che il figlio suo le vuol bene.
Chi si sbaglia: la mamma o il figlio?
Si può pensare che tutto si svolga in un modo analogo anche con Dio. Gli chiediamo che ci aiuti ed egli interpreta questa richiesta come un atto di amore.
Se adesso qualche razionalista illuminato viene a dirci: “Il Dio al quale tu ti rivolgi è solo il desiderio della soddisfazione di quei tuoi bisogni che non sai ancora compensare, il frutto della tua fantasia in cerca di un appagamento gratuito: in effetti, così come tu pensi, non esiste!”, non lo paragonereste ad un qualsiasi intruso che va dal bambino a dirgli: “Guarda che tu vedi una mamma che non esiste”?
E’ vero la mamma come la vede il bambino, e come lui dice che sia, è frutto della sua immaginazione, ma non per questo ella non esiste.
Tuttavia non si può pretendere nemmeno che la mamma spieghi al bambino chi è lei, e cosa sia per lui. Lei si comporta semplicemente per quello che è, e questa è l’unica sua spiegazione, sulla quale nasceranno poi tante altre spiegazioni come una riprova.
In un certo senso Gesù si è comportato come una madre nei riguardi dell’umanità: ha vissuto sulla terra la sua divinità, si è mostrato per quello che è, e questa è stata la sua principale spiegazione di come e di chi sia Dio, eppure malgrado l’evidenza della sua luce, si può sempre vederlo come se fosse offuscato, o anche non accorgersi nemmeno della sua esistenza.
Quindi non è che nelle diverse manifestazioni di Dio noi veniamo a contatto con un qualcosa che ha a che fare con lui, ma che non è lui; egli si presenta veramente per quel che è: tutto Dio, tuttavia rimane sempre per noi un mistero, mai del tutto comprensibile.
Per ritornare al paragone di chi non ha dei buoni occhi: costui non può dire di vedere una realtà che è falsa, solo perché questa gli appare indistinta.
Non si tratta quindi di un Dio sbagliato. Egli non manda all’uomo una sua fotografia, bensì se stesso, anche quando si fa immagine, per farsi comprendere da una mente che non ragiona se non con la fantasia e per immagini. Ma soprattutto egli si è ridotto a questo modo per arrivare a quel cuore che può sempre amarlo, spinto da una pulsione istintiva che egli stesso ha immesso nel patrimonio genetico dell’uomo, al sorgere della sua vita.
Il risultato è che probabilmente ci possono essere dei grandi santi persino tra i pagani.

Ma almeno si deve ammettere che esistono delle religioni infantili e altre più mature proprie di una civiltà più adulta.

In una famiglia, se ci sono dei figli più piccoli, proprio questi vengono amati maggiormente. Il loro primo tentativo di parlare viene considerato un miracolo, mentre quando avranno raggiunto la maturità, anche se scrivessero dei libri, non resterebbero esenti da critiche. Così, se l’umanità è una famiglia, non ci sono popoli con culture che non meritino il nostro apprezzamento. Del resto quando manca l’amore per cert’une di esse, ci viene in aiuto la nostra curiosità e, forse per questo, visitiamo i musei ed indaghiamo usi e costumi diversi dai nostri, anche solo magari come turisti.
Basta pensare ad una società fatta solo di gente anziana, per sentirsi assaliti dalla noia, ed ad una umanità fatta solo di popoli cosidetti civili, per paventare un disastro.
Se le forme religiose dei diversi popoli si comprendono meglio quando vengono considerate nell’alveo della loro cultura, non bisogna tuttavia pensare che esse siano per questo meno ricche di significato.
Come del bambino non posso dire che ha una età psichica più primitiva rispetto all’adulto, perché è la sua tipica, con tutte quelle bellezze e peculiarità che la corredano, così nella storia dei vari popoli non ci sono culture ‘datate’, ma delle epoche irripetibili per ricchezza di contenuto.
Non bisogna confondere un giudizio che riguarda le capacità tecniche con quello sulle possibilità morali.
Del resto, anche ai giorni nostri, può capitare che qualche fedele di religioni cosiddette evolute si comporti davanti alle statue ed ai simboli della sua fede in un modo completamente simile ad un qualsiasi idolatra davanti ai suoi feticci.
Per fare un esempio: come chi sta parlando in tedesco, non può esprimersi con la mentalità di un italiano, e a sua volta l’italiano, per capirlo, deve dimenticare la sua lingua, per far propria quella del suo interlocutore, così certe forme di pensiero non si possono mettere insieme a certe altre, come fossero equivalenti, senza fare confusione, ma perché sono tipiche non sono meno o più valide di esse: lo rimangono sempre sufficientemente per quel dato tempo ed insieme tutte sempre imperfette davanti all’eternità.
Così anche noi dobbiamo accettare chi si esprime per esempio con la mitologia o con la venerazione degli idoli, perché se si vuol capire un altro modo di pensare, anche se non lo si potrà mai fare del tutto, si deve necessariamente tralasciare, almeno sul momento, quello che si usa abitualmente.

Come si deve valutare il fatto che certe religioni come l’ebrea e la mussulmana non ammettono qualsiasi devozioni di immagini?

Se pensiamo a quella giovanetta di Nazaret che ebbe la ventura di essere la mamma di Gesù, non possiamo figurarcela se non tutta bella e nel medesimo tempo tutta pura.
Ben diversa potrebbe essere l’immagine di Venere o di non so quale altra dea dell’amore o della fertilità.
Le religioni che proibiscono le immagini lo fanno per purificare non tanto le figure, quanto quello che esse indicano.
A questo proposito bisogna anzi dire che i meccanismi cognitivi usati dalla persona adulta non escludono quelli dell’età precedenti, che vengono invece integrati gli uni negli altri. La logica, i miti, le immagini fanno sempre parte del corredo psichico, anche se non sempre adoperate nel medesimo tempo.

Ancora un altro argomento. Questo rapporto dell’uomo con Dio, il suo essere religioso ha dei riflessi nel suo comportamento con l’ambiente in cui egli vive?

Certamente!
Rifacendoci sempre al complesso di Edipo, si può paragonare il ruolo svolto dalla natura nei riguardi di Dio a quello della madre nei confronti del padre. E’ stata lei a generare il suo bambino ed ora lo aiuta in un certo senso, a ritrovare la vera figura di lui quale veramente egli è, cioè: ‘Padre’.
Basta immaginarsi quello che direbbe la madre al figlio che gli chiedesse chi è il padre.
Ovviamente ella glielo potrebbe spiegare, prima di tutto, perché lo conosce, eppure in modi sempre diversi e mai esaurienti per quanto il figlio, nelle varie età della sua vita, lo possa capire.
Così è la manifestazione di Dio da parte della natura creata per gli uomini: è una vera rivelazione di sé stesso, attraverso di essa, adatta alle loro capacità, nel corso dei tempi.
La madre non dice delle falsità al bambino, ma risulta nello stesso tempo un filtro e un interprete oltre che una maestra, senza poter mai riuscire a trasmettere del tutto la vera immagine del padre.
Ma ancor prima di questa esiste un’altra rivelazione di lui per il bambino ed è il figlio stesso mentre chiede notizie del suo papà.
Di fronte ai profeti e agli uomini che ce lo hanno annunciato, la nostra perenne domanda: “Chi è Dio?”, mai completamente soddisfatta da tutte le risposte ricevute, acquista il valore di una vera rivelazione del suo essere.
Egli così vicino al figlio suo da averne improntato l’immagine, rimane pur sempre il suo mistero, perché il suo rapporto con lui, prima ancora di essere conoscenza, è la sua stessa vita, che non trova altre spiegazioni se non in quella realtà insondabile che è l’amore.
Questo essere ‘identico’ al padre lascia intravedere e capire meglio il suo destino e la sua vocazione.

Dobbiamo quindi rifarci a quanto abbiamo detto su quel meccanismo di identificazione, che sembra prometterci il superamento di ogni ansia e di ogni dolore…

Ci sono due modi di intenderlo.
Il primo è quello di ‘essere’ altri dei, ovviamente inteso nei nostri limiti. Per quanto ardito possa sembrare, Gesù ha voluto con l’istituzione dell’Eucaristia fare diventare l’uomo un altro se stesso, un figlio di Dio.
Oppure si può volere ‘essere al suo posto’.
In questo caso si tratta di una pretesa di sostituzione, al posto di tendere ad una realizzazione.
Probabilmente anche Giuda avrebbe voluto essere al posto di Gesù!
Le conseguenze sono evidenti e le lascio a lei immaginare, ma se qualche pensatore ha profetato un futuro suicida per l’umanità, lo si può ammettere paragonandolo a quello del traditore.

Ovviamente questa predizione assomiglia alla voce di un uccello di malaugurio e non si può dire che pecchi di ottimismo!

Mi pare con questa immagine di dover finire la nostra intervista, riportando un passo di una lettera di Giovanni apostolo, quasi a conclusione di tutte le nostre questioni: Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente !.

Il positivo di ogni ascesa


Defabulazione - de-erotizzazione

Ho scritto altre volte che de-fabulazione de-erotizzazione e de-possessione sono le premesse di una coscienza pura ai fini di una conoscenza chiara. A prima vista questi termini richiamano una sorta di castigatezza ascetica che rappresenterebbe una limitazione se non una negazione delle proprie possibilità, mentre invece si tratta di un vero allenamento per diventare più validi anche nella vita pratica.
Per questo quel che è importante, per esempio a proposito della defabulazione, non sta nel costringere il bambino a non leggere le favole, ma ad aiutarlo a perdere le chimere, anche per capire meglio i miti che le favole propongono in figura come analogia di una verità ancora inspiegabile ad un bambino che possiede solamente una conoscenza iconica (delle immagini).
Tutto questo si traduce nell'incentivare le possibilità specialmente nel campo delle virtù; alla sua età, additandogli fiducia, magnanimità e speranza, nell'aiuto ai genitori, nel servizio familiare ed nell’impegno scolare.
Altrettanto si dovrebbe dire del superamento dell’erotismo che è necessario a cominciare dalla pubertà per l’acquisizione di una conoscenza eidetica (degli ideali).
In modo analogo per il giovane le virtù consistono nell’adeguarsi alle regole del comportamento sociale cominciando dalle più semplici come quelle che riguardano la viabilità, il lavoro e lo studio, mentre può esercitare la speranza nell’associazionismo assistenziale.
L’anziano al tramonto della vita può essere tentato di spingere la sua rinuncia fino al punto di desiderare la morte e, invece, può ricominciare ad affrontare ogni giorno come se fosse il primo della sua vita, senza tuttavia accantonare il tesoro della sua esperienza. È questo il modo più semplice per esercitare la fede. Tra l’altro, se non si accontenta di un certo ‹riduzionismo› pensionistico, continuerà ad essere presente con il suo amore, magari solo con un consiglio non taciuto o un esempio non nascosto. Alla volte basta solo perdonare per amare e chiedere perdono per sperare.
Non si dovrebbe pensare mai che per arrivare una conoscenza pura e chiara ci sia qualcosa da non fare, perché molto di più è quel che c’è da fare.

Unità-distinzione


La prassi ‹dell’unità-distinzione›

L’unità-distinzione può considerarsi un problema e può manifestarsi un mistero. Per cercare una possibile spiegazione la paragoniamo con un’altra questione.
Che cos’è la pace?
La domanda è un problema, mentre se io faccio la pace con il mio prossimo e se riesco anche a concluderla, tanto che la posso fermare in un contratto alla presenza di testimoni, allora, supero qualsiasi dubbio su quel mistero che era per me la pace.
Altrettanto e a maggior ragione è quella risposta alla domanda che cosa sia l’unità. Se non la si costruisce, non la si sperimenta, se non la si sperimenta, non la si conosce e, quindi, non si può capire e non si può spiegare.
Come faccio io l’unità con me stesso?
La risposta è semplice. Io tutti i giorni eseguo fatti e dico parole che manifestano atti del mio esistere, come espressione delle facoltà donatemi dal mio essere (natura), ordinate all’esistere dal mio spirito.
In pratica come avviene tutto questo?
La mia natura fa dono all’esistere delle sue facoltà e l’esistere le traduce in qualità. Una volta compiuto questo processo l’essere ‹vede› nell’esistere quel qualcosa di quel suo essere che si è fatto esistenza. Ora, ripetendomi, se l’essere vede nell’esistere se stesso chiarito, compreso vissuto, ovverosia vede più essere e insieme più esistere o, in altre parole, se vede sé nell’esistere, allora vede l’unità, perché vede nello stesso tempo e insieme l’essere sé e l’esistere sé fatti uno secondo l’ordine dello spirito.
Qualcosa di analogo avviene tra me e il mio interlocutore ai fini della costruzione dell’unità-distinzione con lui. Quando io vado dal mio interlocutore per donargli me stesso ed egli lo accoglie, allora io spontaneamente e sorprendentemente ‹vedo› me stesso vissuto da lui: vedo me e vedo lui come me; vedo lui e capisco meglio me, anzi, capisco lui unito a me ed io ordinato all’unità con lui. In questo caso è evidente che l’unità è cresciuta, ma che nello stesso tempo anche la distinzione è più grande, come un aumento del particolare di ciascuno assunto nell’unità. Nel caso invece che non avvenisse in questo modo, bisognerebbe concludere che io sono andato da lui, non per donare me, ma per imporre me stesso oppure, per necessità, di sottopormi al suo dominio. Nel primo caso questa imposizione mi fa vedere ancora me stesso, ma solamente me, e non un me accolto e vissuto dall’altro, al punto che se il rapporto assomiglia ad una unità lo è solo in apparenza e più propriamente consiste in una confusione; mentre se io vado dal mio prossimo per necessità cerco un me stesso in un diverso da me che non ha ricevuto il mio dono, ma la mia pretesa e, anche in questo caso, non c’è unità, ma una supposizione falsa e artificiale.
Da questo schema che descrive come avviene la pratica dell’unità è facile risalire al significato ed al valore dell’unità, illustrandola per se stessa come idea. Abbiamo visto che l’unità consiste nel vivere sé nell’altro e l’altro in se stessi, in questo senso si parla di distinzione e solo secondariamente di unità ma, poiché la distinzione è vissuta da due che sono diventati uno si può parlare di un'unità che ci fa conoscere non due persone, ma l’‹uomo› dei due, ovverosia l’‹idea› dei due singoli uomini. Non si tratta di una idea immaginaria, o costruita artificialmente, o ricavata per estrazione dall’uno e dall’altro, ma di una realtà, che ha il suo fondamento in re, ovverosia nell’unità, che consiste nel vivere l’altro nell’uno e sé nello stesso uno, perché i due si sono fatti dono l’uno per l’altro.
Con parole diverse, questo dono reciproco ha fatto diventare la distinzione unità e i due diversi sono diventati l’‹uomo› unico, che non è solamente idea, ma è soprattutto ‹ideale›. Si tratta di quell’uomo scelto insieme dai due che è ‹vero› e non solo veritiero, perché è riconosciuto confermato ed ‹eletto› (amato) da ciascuno dei due singolarmente e, nello stesso tempo, insieme.
È questo riconoscimento di sé nell’altro e dell’altro di riflesso in sé che traduce la virtù dell’unità in quell’ordine che é la premessa e il compimento dell’unità stessa. Senza la virtù della fiducia, della dilezione e della speranza, non c’è nemmeno l’unità, ma semmai un'organizzazione artificiosa di persone necessitate o necessitanti oppure necessitate da altri pochi che la impongono altrettanto artificialmente.

mercoledì 10 febbraio 2010

Medicina e Vangelo



Lo psicologo e il medico possono credere?

(Intervista)

Ogni medico, almeno qualche volta, si è sentito interrogare sui rapporti tra medicina e religione, sull’influenza del pensiero di Gesù su questa branca della scienza e sui conseguenti riflessi pratici.
Questa intervista può portare alcuni interessanti contributi all’argomento, forse anche originali.
Ecco quindi domande e risposte.

Si può dire che Gesù avesse un suo modo di considerare i problemi sanitari del tempo?

Certamente egli è venuto in contatto con le molte sofferenze della sua gente, quindi con i malati.
Leggendo il vangelo si ha anzi l’impressione che egli rivolgesse la sua attenzione proprio a questi ‘ultimi’ della società e tutti sanno che durante la sua vita ha fatto moltissime guarigioni miracolose,1 tuttavia non si può dire che egli valutasse questi problemi come lo farebbe oggi un funzionario del ministero della sanità (Mt. 11, 2-6).

In che considerazione teneva la medicina?

Non credo si conosca il suo giudizio a proposito, il vangelo accenna piuttosto a quello che avevano i suoi contemporanei.
Per esempio a proposito di una donna che soffriva di emorragia, riferiscono come ella avesse affrontato ingenti spese per la cura e per gli onorari medici, non solo senza ottenere la guarigione, ma anzi andando di male in peggio (Mc. 5, 25-34).
Questo episodio non sembra esprimere un entusiastico apprezzamento dell’arte medica di quel tempo, che del resto, come in tutta l’antichità era ancora a livelli primitivi.
Nel vangelo spesso i malati si presentano in uno stato di cronicità senza la minima speranza di trovare qualche rimedio al loro male, che viene accettato come inevitabile, anche se sicuramente essi non avranno evitato di cercare la guarigione o almeno di desiderarla.
Non si può tuttavia dedurre che Gesù e il suo entourage disprezzassero i sanitari e le loro pratiche terapeutiche.
In un certo senso è vero il contrario. Dopo aver guarito dieci lebbrosi, raccomanda loro di farsi dare, diremmo noi oggi, il certificato di fine malattia e di assenza di pericolo di contagio dall’autorità competente del tempo per questi casi (Lc. 17, 11-19).

Allora non riteneva inutile la cura del malato?

Come si è già accennato egli fece molte guarigioni strabilianti, non solo senza l’uso di medicamenti, ma anche senza la fatica e i disagi connessi con le terapie, manifestando sempre una premurosa attenzione verso i malati, per cui sembra raccomandarla, almeno a coloro che non sanno fare i miracoli.

La sua osservazione ha un accento umoristico! Ma in pratica cosa significa?

Gesù si è identificato con il bisognoso e ha avvisato i suoi discepoli che egli ritiene fatto a se stesso ogni cura ed attenzione rivolta a chi chiede aiuto e quindi anche agli ammalati (Mt. 25, 31-46).
Quindi non riteneva la medicina una tecnica solamente utile, ma una vera preoccupazione rivolta al paziente dove anche la scienza ed il sapere trovano il loro ruolo di impiego e di servizio.
Egli personalmente, non essendo medico, non si è mai spacciato per tale, né ha mai usato dei medicamenti nel senso classico della parola.
Insomma, usando il linguaggio moderno, si deve dire che non è mai stato un abusivo.
Eccezionalmente ha adoperato la propria saliva per aprire le orecchie a un sordo (Mc. 7, 33-37) e gli occhi ad un cieco (Gv. 9, 1-7), ma gli scrittori che ci riferiscono questi fatti insistono che devono essere considerati come dei segni a prova della sua onnipotenza divina e non tanto come atti curativi, anche se ovviamente non tacciono il beneficio ottenuto dal malato.

Tuttavia egli raccomandava ai suoi discepoli di curare i malati. Non è questo un esercizio dell’arte medica?

Non di curare, ma di curarsi degli ammalati.
E i discepoli hanno obbedito e sembra che abbiano guarito numerosi casi. Se anche essi hanno fatto miracoli, si tratta sempre di fatti eccezionali, forse più frequenti solo nel primo periodo del cristianesimo (Mc. 6, 7-13).
Per capire il pensiero di Gesù si può rifarsi a questo paragone.
Certamente il Signore per quello che riguarda la fede può intervenire con delle illuminazioni particolari, egli tuttavia ha raccomandato agli apostoli di istruire i credenti (Mc. 16, 15-16), non ha preteso per questo che usassero mezzi magici o straordinari; ed essi si sono comportati come tutti i maestri di questo mondo che impartiscono un normale insegnamento in una comune scuola (ibidem). San Paolo istituì nel suo vario peregrinare una vera e propria università itinerante, con libri, docenti e forse anche esami.
Alla stessa stregua devono essere considerate le raccomandazioni di Gesù nel campo sanitario, se egli ha dato agli apostoli in principio dei poteri eccezionali, era perché essi e la comunità nascente acquisissero l’impegno di curare i malati come un dovere.
Ben presto, dopo di lui, presso ogni chiesa locale, si direbbe oggi in ogni parrocchia, accanto alla distribuzione dei beni superflui, in vista di una maggiore equità sociale, nasceranno dei veri e propri servizi di infermeria, precursori dei nostri attuali ospedali.
Mai i cristiani, una volta incapaci di fare miracoli, si sono serviti delle arti magiche o della stregoneria, che molto probabilmente erano invece usate nelle sette religiose del loro tempo.

Prima di Gesù non esistevano gli ospedali?

I Romani consideravano la salute del popolo un bene supremo, ma dato le conoscenze dell’epoca, le loro cure non andavano oltre una certa pratica dell’igiene ed anche questa limitata a determinati ceti sociali.
Una politica di assistenza sanitaria era praticamente sconosciuta.
Durante l’epoca imperiale esistevano degli ospedali solamente nell’ambito dell’organizzazione militare.
I soldati feriti o ammalati venivano assistiti con lo scopo di essere ricuperati, continuavano insomma a far parte della macchina bellica: da una parte erano a carico dell’amministrazione militare, come tutte le altre spese destinate alla manutenzione dell’esercito, dall’altra erano soccorsi dalla commiserazione dei colleghi che ne condividevano le sorti e le preoccupazioni.
Un’altra forma organizzata di assistenza era quella offerta ai gladiatori. Se restavano infortunati nelle loro giostre, tutt’altro che innocue, avevano diritto subito ad un aiuto che fosse il migliore possibile, ma solo in vista di un loro riciclaggio; quelli che non promettevano di rimettersi presto venivano abbattuti prima ancora di lasciare l’arena del circo.

Erano quindi ospedali traumatologici...

Almeno prevalentemente.
A quel tempo le cure che non riguardavano ferite e infortuni erano maggiormente riservate alla pietà dei familiari che non al sapere dei medici e all’assistenza del personale paramedico.

Ma anche a quei tempi esistevano i medici…

… ed erano per così dire , grosso modo, di due tipi: gli scienziati e i praticoni, gli uni che si appoggiavano agli altri o, come capitava un po’ qualche tempo fa tra medici e chirurghi, rivali tra di loro.
Forse solo i primi si consideravano i veri medici, eppure anche il loro sapere era molto limitato. Basta pensare che allora, per studiare l’anatomia dell’uomo, al massimo sezionavano la carcassa di un maiale, per tirare delle conclusioni sull’ipotesi di una sua somiglianza con il nostro corpo.
Comunque costoro si sentivano abbastanza superiori agli altri che tuttavia erano sempre necessari se non altro come cerusici.
Questi ultimi il più delle volte possedevano una qualche abilità pratica, altre volte invece si facevano avanti con una certa prosopopea ciarlatanesca che li faceva diventare sospetti presso la gente.
Vestigia di questi giudizi rimangono nella storia di tutti i tempi fino all’epoca moderna, basta ricordare certe stampe dell’ottocento rappresentanti i cavadenti; a proposito la loro attività si limitava prevalentemente alle estrazioni dentarie e alle incisioni degli ascessi.
Anche nel nostro recente passato, quando non erano stati scoperti gli antibiotici, erano proprio questi gli interventi chirurgici non certamente sporadici, ma di routine.
Io stesso, poco dopo la fine della guerra, quando la penicillina costava più dell’oro, dovetti usare spesso quest’ultima procedura, che se ora non è del tutto dimenticata è diventata tuttavia una rarità, accompagnata com’era con il residuo di orribili cicatrici che lasciavano il loro segno indimenticabile delle sofferenze patite e dello scampato pericolo, talvolta mortale.
Nelle case patrizie della Roma imperiale c’era probabilmente quasi sempre uno schiavo capace di questi servizi, ma anche negli ambienti più poveri tutto si svolgeva nell’ambito familiare e privato.
Il cristianesimo invece ha rivoluzionato il modo di intendere e di praticare questa arte, anche se i cristiani, a dire la verità, non ne avevano né la coscienza né l’intenzione di farlo, sia nell’ambito privato e personale, sia in quello pubblico e sociale.
Un esempio classico è la trasformazione dell’isola Tiberina, sul fiume omonimo, (dove i padroni del mondo confinavano i vecchi fastidiosi e gli incurabili inutili in attesa della morte, dal ruolo di deposito di rifiuti umani) a centro ospedaliero, ancora attivo nei nostri tempi, tenuto com’è tutt’oggi da personale religioso, che gode grande stima presso la gente della città.
Si tratta di un vero miracolo, anche se non è avvenuto subito e d’incanto, ma sorto già ai primordi del cristianesimo perfezionatosi nel corso della storia fino ai giorni nostri.

In che cosa consiste questa rivoluzione?

In questo: che il malato doveva essere curato in quanto immagine di Dio e non come se fosse una macchina rotta.
I cristiani sapevano che ogni cura rivolta al malato era fatta a Gesù stesso.
La pratica medica diventava così un atto di religione e di devozione, che aveva valore di per sé anche nei casi disperati, quando non era prevedibile un successo, che richiedeva la fede del credente e l’impegno dell’uomo, che avrebbe la prima stimolato la ricerca scientifica e la seconda indotto a superare ogni fatica ed ogni delusione.

Si può dire che da questi inizi sia nato il fenomeno dell’accanimento terapeutico?

Con il termine ‘accanimento terapeutico’ si intende il più delle volte l’uso di tutti i mezzi per conservare non la vita di un paziente, ma alcune ore della sua sopravvivenza. In altre parole oggi la scienza ci offre la possibilità di prolungare una esistenza artificialmente, al prezzo tuttavia di gravi sacrifici personali, tecnici ed economici , anche quando manca una probabilità di guarigione.
Queste procedure non sono comprensibili se non nell’ambito della tecnica che non si domanda del futuro dell’uomo una volta deceduto, esse non facevano parte certamente delle intenzioni dei cristiani che credono nella resurrezione dei corpi e nella certezza di una vita oltre la morte.
Anzi per loro la cura del malato diventa una specie di preparazione a questa vita futura che non avrà più bisogno di medici e di medicine, ma che sarà sempre accompagnata dalle cure e dall’affetto dei fratelli di fede.
L’assistenza al malato diventa allora, in un certo senso, un anticipo del paradiso, dove le stesse sofferenze non sono che un tirocinio ed una prova della pratica dell’amore scambievole, destinato a rimanere per l’eternità.

Allora una pratica meritoria per aver diritto alla salvezza?

I primi cristiani non avevano questi problemi.
Il ricordo di Gesù uomo era recente e come amavano lui così sapevano di dover amare il fratello.
Quando si ama non si pensa al merito, ma non si immagina nemmeno che l’amore possa non esser corrisposto, non si tratta quindi di un atteggiamento mercantile del ‘do ut des’, ma di una vita che ha fondamento nell’esistenza stessa dell’amore, che non ha senso se non esiste Dio.

Ma a noi interessano i risultati pratici?

Sono due. Il primo è che la pratica infermieristica è diventata altamente encomiabile avviandosi a diventare così sempre di più specializzata, anche se per questo sono stati necessari tempi lunghi, forse di secoli.
Il secondo è che la medicina si è avviata inesorabilmente a diventare una scienza e non una pratica familiare.

Non era una scienza prima di Gesù?

C’erano effettivamente delle scuole mediche famose, basta ricordare quella di Ippocrate, di cinque secoli prima di Cristo i cui insegnamenti avrebbero avuto valore fin quasi ai giorni nostri; tuttavia, mancando gli ospedali, per forza di cose non esisteva la possibilità di un esame statistico dei risultati delle varie cure.
Se la medicina è una scienza sperimentale come avrebbe potuto progredire senza la statistica e come avrebbe potuto usarla se mancava una classe omogenea di malati da esaminare?
Io non dico che fin dai primi tempi i cristiani hanno stabilito le basi scientifiche dello sviluppo della medicina.
Essi si sono preoccupati solamente di assistere i sofferenti, ma con il loro metodo introdotto su larga scala e se necessario in ambienti specializzati, come sono appunto gli ospedali, hanno costituito, senza saperlo, le premesse indispensabili al fondamento di una scienza che si sarebbe sviluppata nei tempi successivi.
Insomma senza cristianesimo non c’erano ospedali, senza ospedali non ci sarebbe mai stata una medicina su basi scientifiche.

Allora la cura del malato raccomandata dal Signore come atto di fede e di umanità è diventata successivamente una pratica tecnica con il pericolo di essere fredda ed impersonale?

Quando Gesù guariva un ammalato con un miracolo il più delle volte lo rassicurava e gli dava fiducia con le parole: “La tua fede ti ha salvato”.
Probabilmente egli intendeva dire che, come aveva ottenuto la guarigione del corpo, aveva così conseguito anche quella della sua anima, di cui la prima sarebbe stata un segno e quindi la remissione dei suoi peccati.
Tuttavia è sorprendente il comportamento del Signore.
Egli avrebbe potuto dire: “La mia onnipotenza..”, oppure: “La mia carità…”, ed invece preferisce attribuire la causa del miracolo alle disposizioni di chi lo ha richiesto.
Questo è già sufficiente per spiegare come egli ci invita a trattare il malato; chi lo vuole aiutare deve far leva sulle sue buone disposizioni e dargli fiducia che può guarire. Il medico è contento di fare una bella figura con la sua opera e di attribuirsene il merito, ma deve preferire che la faccia il malato con la sua pazienza e, in effetti, chi ha la parte più difficile da recitare è proprio quest’ultimo.
Insomma Gesù raccomanda ed esige tutto il nostro impegno, sia di chi presta le cure, sia di chi le riceve, implicitamente non ammettendo nemmeno che si metta in dubbio che il suo possa mancare.
Ogni fenomeno naturale, ogni atto della ragione e della attività umana dipendono del tutto dalla materia e dall’uomo e distintamente in uguale misura dall’intervento divino, pur rimanendo sempre il loro compiersi in unità.
Per questo ogni situazione ha una spiegazione umana razionale e nello stesso tempo una soprannaturale ‘divina’, valide e comprensibili indipendentemente e distintamente e nel medesimo tempo senza misteri, se si accetta il ‘mistero’ del divino.
Quindi, dopo tutto questo lungo discorso, si può dire che la scienza medica può presentarsi come una pratica fredda e tecnica necessitata dalla materia in sé e che sfocia nella guarigione o no del paziente, ma può e deve essere anche un atto di fede e di amore, sempre fondata su una ragione di virtù e di bontà; essa non è mai impersonale e puramente materiale, esige quindi anche tutto l’affetto del cuore umano e la partecipazione del suo spirito che crede.
Ripetendomi: quando Gesù dice: “La tua fede ti ha salvato”, egli fa riferimento a tutte quelle qualità che sono proprie di un uomo perfetto e che sono necessarie sia al medico che al malato.

Comunque la tecnica medica e le strutture dove essa si può applicare rimangono preminenti per la cura del malato.

Qualsiasi medico è stato chiamato nella notte più di una volta per futili motivi.
Fortunatamente negli ospedali gli infermieri funzionano da filtro in diverse occasioni, almeno quanto in altre, quando ancor più lodevolmente, si accorgono che l’opera del medico deve essere richiesta con urgenza, mentre il paziente, magari, non ne aveva il minimo sentore.
Così, quando uno è stanco ed ha i nervi a pezzi, benedice chi non lo ha svegliato inutilmente.
È un esempio, anche se banale, di come una struttura possa standardizzare il lavoro e renderlo quindi più economico ed anche più efficiente.
Quando Gesù guarisce una paralitica nella sinagoga e di sabato, in termini nostri in chiesa e di domenica, come per esempio, durante la messa, il capo della sinagoga, preposto dell’organizzazione, si lamenta ad alta voce con la gente: “Non ci sono sei giorni lavorativi per farsi curare, perché venite di festa a richiederlo?”.
Egli principalmente sembra preoccupato che sia salva la legge mosaica del riposo sabbatico, ma si tradisce anche come persona infastidita dalla folla, come quel medico svegliato nel cuore della notte.
E anche qui Gesù stabilisce il primato dell’amore: esso è un dovere più divino di ogni divino comandamento (Lc. 13, 10-17).
I santi sul suo esempio diranno: “Caritas Cristi urget nos”, “Siamo urgentemente spinti dall’amore di Gesù.”

Se la medicina chiama in causa tutto l’uomo, anche la sua anima, può allora diventare lecito l’uso dello spirituale per guarire i malati. In una parola i miracoli possono essere di pertinenza medica?

Anche qui può servire il paragone con l’acquisizione del sapere, che è una specie di guarigione della ragione, in quanto essa si libera dell’errore, che è la sua malattia.
Certamente una persona attenta che vuole imparare arriva a farlo molto meglio e molto prima di una svogliata e distratta, così si può dire che il malato che ‘vuol guarire’ lo ottiene più facilmente di chi ha perso ogni speranza, se non altro perché sa meglio affrontare i sacrifici imposti dalla cura.
Ma nell’uno e nell’altro caso non si tratta di risposte miracolose ad una fede religiosa.
I miracoli rimangono miracoli e non riguardano la medicina. La loro interpretazione non può avvenire se non nell’ambito del ‘mistero’.
La scienza può intervenire solamente per valutare e accertare criticamente il fenomeno, in pratica per controllare che esso non celi un imbroglio.
E’ il caso della commissione sanitaria istituita dalle autorità ecclesiastiche a Lourdes che ha attestato la non spiegabilità medica di numerose guarigioni avvenute in quel luogo.
Ripetendomi: quello che non è naturale, ma che supera questo campo non è di pertinenza medica.
Voler spiegare i miracoli con la scienza equivale a voler capire l’esistenza della vita, come se l’avessimo creata noi.
Far intervenire la religione nella medicina è un errore di uguale portata di quello che si fa, quando si usa la medicina per spiegare la religione.

Quindi lei nega che ci possa essere un’influenza della fede sulla salute.

L’uomo rimane sempre una persona tutta intera, unita in se stesso, per cui sicuramente lo spirito ed il fisico non sono due compartimenti stagni, senza relazione tra di loro.
Tuttavia lo studio dell’uno e dell’altro, così come la loro comprensione, deve avvenire distintamente e con strumenti diversi, adeguati nei due casi.
Per capire il corpo e le sue funzioni bisogna usare il sapere medico e non i libri di teologia e, viceversa, voler capire il perché dei miracoli con il bisturi ed il microscopio è un assurdo.
In quest’ultimo caso bisogna ascoltare la parola di Dio e la rivelazione.
Ciò non vuol dire che anche in questo campo l’uomo non sia chiamato a riflettere, anzi è un suo preciso dovere, non sconosciuto alle persone che sanno meditare, che non potrà mai tuttavia reggere alla comunicazione sperimentale dell’incontro della loro coscienza con la grazia del Signore.

A proposito di coscienza: Gesù riconosce la malattia come manifestazione di una colpa? E’ essa la conseguenza del peccato?

La bibbia riferisce che con il peccato è entrata la morte e quindi la malattia nel genere umano.
Il problema è complesso. Gesù, anche se forse lo ha trattato, non ne ha dato la spiegazione (Lc. 13, 1-5).
Tuttavia ha portato la risurrezione e la vita.
Bisogna dire che in questo campo si è comportato come quei sanitari che non spiegano al malato la ragione del suo male, ma lo guariscono.
Direi che si è rivelato un buon medico con una ottima cura.
Tuttavia la domanda è lecita.
Ma io sono un incompetente per dare una risposta, per cui se la do e se qualcuno dovesse leggerla, dovrà essere considerata con indulgenza.
Allora.
L’uomo non è Dio, quindi è limitato.
Il suo limite si chiama, per quel che riguarda il corpo, malattia e, per quel che riguarda lo spirito, peccato.
La creazione consiste non solo nell’inizio di una realtà diversa dal Creatore, ma anche nella sua distinzione.
Se la natura non avesse avuto una vita sua propria, diversa da quella di Dio non avrebbe avuto nemmeno la possibilità di esistere.
Questa differenziazione agli occhi di Dio, che non ha limiti e si chiama Amore, rimane una distinzione in seno ad una unità più grande, non è quindi una divisione. Lo è invece per l’uomo che, come abbiamo detto, è necessariamente imperfetto e per il quale essa si può chiamare separazione, egoismo o, se si vuole, insicurezza, precarietà, incomprensione e così via.
Insomma peccato e malattia sono una eredità dell’uomo.

Eredità necessaria?

Se esistesse solo quell’uomo che siamo noi sarebbe in un certo senso necessaria, ma siccome ognuno può ristabilire la sua unità con Dio e amarlo, per così dire, alla pari, vincendo ogni divisione, in Gesù vero uomo e vero Dio, allora il peccato, la colpa, la malattia non manifestano una natura irrimediabilmente rovinata, sono invece una possibilità offerta a ciascuno di noi per fare la scelta della salute e della bontà.
Insomma se il vangelo riferisce il pensiero di Gesù e ci assicura che niente è stato fatto senza di lui e se egli è stato il mediatore universale, a buon diritto noi lo possiamo chiamare anche nostro Redentore.
Ma come dicevo è il parere di un incompetente.
Comunque a questo proposito e da altri punti di vista ho già scritto su un libretto intitolato; ‘Un medico legge la bibbia’; chi ha interesse all’argomento apprezzerà certamente questa mia nota propagandistica.

Ma dalla medicina senza volerlo siamo passati a parlare dell’argomento della grazia e della fede che ha reso nemici i cattolici e i protestanti per diversi secoli. La natura umana è irrimediabilmente rovinata dal peccato originale?

A quei tempi la discussione verteva su una umanità ipotetica, considerata come se fosse potuta esistere indipendentemente e senza l’innesto dell’incarnazione, mentre veramente Gesù è quell’uomo come noi, che è entrato nella nostra storia che senza di lui non avrebbe un perché.
Chiunque, senza la sua unità con lui, forse potrebbe essere irrimediabilmente rovinato dal peccato originale, ma una persona simile non esiste, se non ammettendola come un’immaginazione del nostro ragionare, in pratica come una finzione della realtà. Ciascuno di noi è indissolubilmente legato con il Redentore, così che la nostra natura mancante non è rimasta nemmeno senza il suo completamento.

Queste considerazioni possono essere utili nel colloquio con gli altri cristiani. L’ecumenismo è di pertinenza anche dei medici?

Uno dei miei migliori amici è un pastore protestante, eppure a ben vedere questa nostra amicizia è il frutto di quella che ciascuno di noi ha con il Signore e se egli chiese ai malati la fede per poterli guarire, non altrimenti la chiede di nuovo a noi per salvarci dalle nostre divisioni.

Quindi basta solo la fede?

Basta vivere con maggior coerenza la nostra fede, perché la fiducia che Gesù ha verso di noi è già scontata.

Comunque si può dire, allora, che in paradiso i dottori saranno disoccupati?

La medicina è troppo importante per escluderla dal paradiso.
Personalmente io penso che sarà una scienza e quindi solo un corredo della sapienza e riguarderà lo studio del corpo umano, che finalmente funziona bene, al posto di presentarsi spesso malandato ed in cattive condizioni.