Lo psicologo e il medico possono credere?
(Intervista)
(Intervista)
Senza una adeguata capacità di conoscere la realtà che noi viviamo è praticamente impossibile impostare il perché della vita e le ragioni del credere, infatti se non si può dire che conoscere significa aver già la possibilità e la capacità di comportarsi giustamente, non si può tuttavia nemmeno agire senza sapere.
Per questo ho pensato in appendice ed in sunto di raccogliere alcune considerazioni sul problema della conoscenza.
Si tratta qui di riferire solamente alcuni appunti, esposte con maggiori spiegazioni in altri scritti che ho l'intenzione di pubblicare su questo blog.
Per mettere d’accordo la modestia dell’esposizione con la sua difficoltà, l’una che permetterebbe poche pagine, l’altra che richiederebbe interi trattati, ho cercato di elencare una specie di vocabolario dei concetti più significativi, quasi una specie di catalogo degli argomenti al riguardo, seguendo un certo filo logico per facilitarne la lettura e la comprensione, iniziando con alcune citazioni certamente ben più autorevoli delle mie considerazioni.
Antropologia filosofica
Molti filosofi sostengono che l'uomo a differenza deli animali non obbedisce necessariamente agli istinti, ma è padrone della sua condotta almeno in parte e sempre per volontà propria.
1 Quindi l’uomo è capace di discriminare.
Lo stesso suo comportarsi presuppone un giudizio che postula una conoscenza: discriminare e distinguere appartengono solo conseguentemente nell’ambito del fare, primariamente in quello del sapere.
Quando noi diciamo che una idea è chiara e distinta non facciamo altro che confermare la distinzione persino con la chiarezza che la fa emergere dal contesto.
Questa considerazione ne richiama un’altra necessariamente connessa: l’uomo dice di si o di no ad una realtà che lo tocca da vicino, egli è quindi in rapporto con essa, la conoscenza consiste nell’accettare questo rapporto o nel rifiutarlo e nel determinarne le modalità.
Da qui ne derivano molte conseguenze, ma almeno una di grande importanza, che questo rapporto ha necessariamente una sua storia, esso avviene nel tempo, è quindi sempre in essere e in divenire
Nel medesimo tempo si realizza in uno spazio, più o meno ampio, più o meno comprensivo, alle volte aperto, altre chiuso.
Inoltre presuppone da parte del soggetto che conosce il possesso di due proprietà essenziali: l’avvertenza e l’attenzione e da parte dell’oggetto di altre due corrispondenti: l’evidenza e la disponibilità (attitudine a spiegarsi).
Riassumendo se si dovesse rappresentare la conoscenza con una immagine, si può usare quella della divisione, dove il dividendo è la totalità della realtà, il divisore consiste nel particolare in esame, il processo conoscitivo consiste nell’operazione, lo spazio è la carta su cui chi conosce la effettua, in un certo tempo possibile, ed il risultato è ciò che si conosce, alle volte la verità, se l’operazione è stata fatta bene e, purtroppo, altre volte l’errore. Questa operazione matematica ammette ovviamente il suo contrario, la moltiplicazione, che può rappresentare un certo procedimento di verifica.
Se abbiamo detto che la conoscenza consiste in una relazione, la differenza fra la nostra e quella degli animali è che mentre per essi è fortuita nell’accadere e determinata nei risultati, la nostra è libera perché è intenzionale.
Infatti noi possiamo venire a contatto con l’oggetto conoscibile, ma sappiamo anche programmare il nostro relazionarci con lui e, non solo, anche prevedere come egli si relaziona verso di noi ed immaginarne le conseguenze; gli animali invece reagiscono momento per momento senza una proposta a lungo termine, ma condizionata, come quella che avviene tra una domanda ed una risposta precostituita geneticamente, e determinata dall’ambiente in cui vivono.
La nostra relazione è di tipo colloquiale: noi sappiamo non solamente rispondere, ma anche corrispondere.
Tempo e spazio
Il concetto di tempo e spazio richiamano quello di memoria e di immaginazione.
Considerare la conoscenza come un processo che avviene nel tempo ci porta ad accorgerci che essa non è una acquisizione né statica, né personale. Io posso sempre fare il punto di una data situazione, ma non posso negare che dipende da tanti presupposti ed è già soggetta a verifiche e cambiamenti. Il che è possibile per la capacità che noi abbiamo di ricordare e di riflettere.
Inoltre per l’uomo che non è perfetto la conoscenza come distinzione è sempre in pericolo di diventare una divisione. In pratica, egli rompe i legami che tengono unite le varie realtà, immagazzinando così tanti frammenti di essa, che devono essere ricombinati per costruire l’insieme.
Ha bisogno quindi di un luogo dove disporli e confrontarli, come per un puzzle di una tavola e di un disegno.
È il campo dell’immaginazione, della fantasia, ma anche di altri spazi meno noti, come quello transizionale, a proposito del quale si può dire che rappresenta un’area intermedia tra soggettività ed oggettività. Probabilmente gli stessi sogni trovano la loro sede in una dimensione del genere, come se contribuissero all’elaborazione e alla memorizzazione delle informazioni raccolte durante il giorno.
Attenzione
Il termine attenzione non significa solamente essere attenti, ma anche avere una certa intenzionalità nei riguardi dell’oggetto conoscibile, ed una certa attitudine a conoscerlo, dovuta ad un esercizio sia della mente che dei sensi.
Oltre a questi due significati ne ha un terzo molto importante: la conoscenza avviene sempre entro i limiti dell’attenzione e nel senso di essa.
Quindi non solo i limiti dovuti ai mezzi o alle capacità o, comunque, intrinseci con la natura dei termini a confronto, ma soprattutto quelli posti volontariamente dal soggetto che indaga.
Si tratta della conoscenza come sperimentazione scientifica, per essa io vedo, in qualche modo, quello che io voglio vedere.
Infatti se la conoscenza è un distinguere io delimito il campo dei fenomeni per rilevarne e misurarne le diverse componenti di esso. Nell’insieme di ciò che mi si presenta differenzio e stabilisco la mia attenzione su un particolare selezionato e, in questo senso, vedo o constato quello che ho voluto cercare.
Esperimento e provocazione
Soprattutto bisogna tener presente che non si conoscono le realtá come se fossero cose esteriori e indifferenti, ma ci si rapporta con esse e ci si relaziona con i propri simili e in questo ambito avviene la conoscenza, ma non essa solamente, bensì anche l'esperienza e l'affettività.
In questo senso non si possono conoscere le cose come sono, perché il ‘come sono è mediato da un 'come esistono'. Una ‘cosa di per sé’, il che equivale ad una ‘cosa sola’, si deve considerare una pura immaginazione fantastica, essa ed ognuna è sempre in relazione con l’universo, attraverso ciò che è vicino, fino agli estremi confini e fino alle estreme conseguenze. Quindi è, ancora prima, in rapporto con chi la vuole conoscere.
Questo rapporto cambia il suo stare, perché rapporto significa divenire, non significa una collocazione ininfluente di buon vicinato, ma una comunicazione corrispondente di sufficiente funzionamento.
Con l’esperimento io costruisco quelle condizioni che rendono evidente questo fenomeno, perché seleziono la modalità in cui questa relazione può verificarsi.
Del tutto diversa è la provocazione. Questo termine in genere non significa il provocare un fenomeno naturale in condizioni di massima evidenza possibile, ma, anche solo indirettamente, indica l’artificio che cambia le condizioni affinché il fenomeno non possa più avere un decorso ordinario.
Si tratta di due modi diversi di conoscere la realtà. Con il primo il soggetto conoscente cerca di adeguarsi alla realtà, con il secondo sembra volerla costringere affinché essa si adegui a lui.
Per esempio: chi è sospettoso perché ha una tendenza alla paranoia, tratta il suo prossimo facilmente in un modo aggressivo, che provoca in lui una reazione di scortesia, che a sua volta diventa la prova che il sospetto era giustificato. Mentre la risposta di quella persona sarebbe stata sicuramente garbata, se fosse stata trattata con la dovuta gentilezza.
Conoscenza e comportamento
Quanto si è detto a proposito della sperimentazione introduce il discorso sul rapporto tra conoscenza e comportamento.
Chi presenta un disturbo antisociale di personalità viene facilmente etichettato come un criminale, ma comunque o prima o poi mette lo psicologo che lo cura davanti al problema, di per sé al di là della stessa psicologia, che riguarda la morale.
Nel contesto del trattamento questi pazienti, che sono inizialmente solo preoccupati del loro interesse che non mettono minimamente in discussione, migliorando, cominciano a considerare le ripercussioni dei loro comportamenti sugli altri e si accorgono di non conseguire sempre quello che vogliono o quello che è meglio per loro con una visione egoistica della vita.
Ma arrivano ad un punto in cui, almeno come obbiettivo, sia loro che lo stesso terapeuta devono decidere a che tipo di morale dover tendere.
Si tratta di scegliere tra una maggiore responsabilità nei riguardi degli altri, oppure una dedizione ai propri doveri, per esempio verso la famiglia, la società, o addirittura di non considerare più solo il proprio tornaconto, ma cercare di mettersi anche nei panni altrui, con il corredo di una certa dose di ottimismo e di altruismo.
Questo ‘mettersi nei panni altrui’ consiste nel vedere la realtà anche come l’altro la vede e la sente, quindi non tanto conoscerla come appare a lui, ma come viene considerata da loro come diversa oppure come simile al fine di trovare un accordo che elimini dubbi e generi conflitti.
La conoscenza, in questo modo, non è solamente teorica, ma diventa una palestra di vita, altrimenti rimane insufficiente e insoddisfacente. In pratica tra soggettivo ed egoistico non corre una grande differenza e chi pretende di dettar legge o di accettare certe decisioni come se fosse un soldato rischia di finire su un campo di battaglia o, se non altro, facilmente in tribunale, ma sopratutto non proverà mai la gioia di aver lavorato per qualcosa di bene e di buono.
Queste argomentazioni possono servire ad introdurre una considerazione sullo scetticismo.
Scetticismo
In genere lo scettico non crede ciecamente, ma anzi dubita di tutto eccetto alla certezza che i dubbio è sempre giustificato, in pratica tuttavia, la certezza è propria del soggetto quando stima gli altri degni di dubbio.
E’ evidente un ripiegamento su di sé da parte del soggetto che conosce e, di conseguenza, una certa mancanza di empatia nei riguardi della realtà esterna e delle persone altrui.
In questo caso, non solo non ci può essere una conoscenza certa, ma nemmeno una qualsiasi conoscenza. La conoscenza se non è una relazione basata sulla fiducia reciproca non è nemmeno una relazione.
Tuttavia, anche se a prima vista, sembra che lo scettico la mette in dubbio, non è vero che egli non creda, o il che è lo stesso, non voglia conoscere, infatti se mangia conosce i cibi, se vive sa come ci si comporta.
Lo scetticismo si giustifica sul piano affettivo, non su quello logico.
Poiché lo scettico non vuole, probabilmente, dipendere dalla realtà, non potendo negarla, la mette in dubbio, quindi non manca di fede, ma di riconoscenza.
Avvertenza
Coscienza e quindi riconoscenza, ovvero ri-producibilità e ri-evocabilità, sono altri importanti presupposti del processo conoscitivo.
Se fosse riproducibile solamente l’immagine dell’oggetto o la sua acquisizione soggettiva, si dovrebbe parlare di una interpretazione o perfino di una consapevolezza arbitraria, ma poiché è anche sempre riproducibile il rapporto e questo rapporto non può essere alterato a piacimento, altrimenti si cadrebbe nella pazzia, che significa confusione e mancanza di distinzione, allora vuol dire che la relazione stessa soggiace ad una legge ed è ordinata, è cioè intelligente, non è fortuita e presuppone quindi l’intelligenza che l’ha ordinata.
Il fatto che può essere rievocata dà la possibilità all’uomo di formulare con dei segni e con il linguaggio la sua conoscenza in modo che possa essere riferita e riferibile.
Il luogo dove questo può avvenire è la memoria sia intesa come propria dell’individuo sia dell’intera umanità (cultura).
Evidenza e disponibilità
Mentre l’avvertenza e l’attenzione presuppongono una volontà intenzionale l’evidenza e la disponibilità indicano una attitudine naturale da parte dell’oggetto conoscibile.
Poiché tuttavia queste disposizioni corrispondono all’intelligenza del soggetto che conosce, sono quasi una risposta programmata alle sue domande, per cui si deve ammettere che esse hanno uno scopo o almeno sono ordinate ad averlo: il conoscibile possiede una sua intelligenza.
Ma poiché non esiste una intelligenza che sia inconsapevole e senza intenzionalità, la volontà che la determina risiede all’infuori dell’oggetto ed è superiore ad esso.
Se si va a vedere bene, questa intelligenza significa appagamento del desiderio di conoscere da parte dell’uomo, per cui le cose si esprimono nei sui riguardi con un servizio.
Il fatto che la conoscenza sia alle volte faticosa, non diminuisce il valore di questa constatazione, perché anche la fatica è uno di quegli oggetti che, conosciuto, arricchisce il sapere e la psiche dell’uomo.
Gnoseologia
Il termine gnoseologia riguarda e descrive il meccanismo della conoscenza.
Solamente fino a mezzo secolo fa si pensava che due sono i metodi in discussione usati dall'uomo per conoscere: quelllo iconico che consiste in una acquisizione della realtà per immagini e quello discorsivo legato alla acquisizione di significati. Oggi dopo gli studi sperimentali di Piaget e dei suoi collaboratori sappiamo con certezza che il metodo della conoscenza si sviluppa dall'età infantile a quella dell'uomo maturo, da una conoscenza iconica ad una descrittiva, ma non si arresta e continua almeno fino alla formulazione delle idee e, in alcuni casi, va ben oltre.
Idealismo e realismo
Generalmente si parla di una conoscenza delle idee con una filosofia conseguente etichettata come idealissmo e invece una conoscenza delle realtà con il nome di realismo. In questo modo, almeno per sommi capi, si rischia di considerare le cose da destra o da sinistra, come se anche i destrimani non avessero la sinistra e viceversa. Il paragone può sembrare semplicistico, ma chi studia la filosofia si sorprende di trovarsi in un campo visuale di questo genere che esclude un altro modo di vedere più completo e più soddisfacente. Se si sottolinea un aspetto non si dovrebbero negare gli altri. Già gli studi di Piaget hanno contribuito a risolvere questo problema, ma la stessa pratica abituale dell'arte del conoscere non è così settaria come lo sono certi filosofi. Se l'idealista vede tutto e solamente spirito e il realista tutto e solamente materia è perché ciascuno vede in modo soggettivo la realtà tanto da concludere che è impossibile conoscerla per quel che veramente essa è.
Quale potrebbe essere un tentativo di risposta a queste due alternative?
Dal considerare la conoscenza come una relazione intenzionale tra soggetto ed oggetto noi possiamo ricavare una specie di esempio.
Immaginiamo un libro sopra un tavolo che dicesse: “Io schiaccio il tavolo”; oppure che il tavolo argomentasse: “Io sostengo il libro”. Allora, in questo caso, qualcuno dovrebbe meglio osservare che né l’uno sostiene, né l’altro preme, ma che l’uno sta sopra all’altro perché nessuna delle due cose è capace di avere delle intenzioni a proposito.
Se invece queste intenzioni ci fossero, cioè se veramente, per esempio, il tavolo volesse sostenere, o se chi ha fatto il tavolo lo avesse costruito con questo scopo, solo allora bisognerebbe ammettere che il tavolo sostiene e se il libro avesse l'intenzione di appoggiarsi allora dovrebbe almeno scusarsi di schiacciare il tavolo.
Analogamente avviene nel processo conoscitivo.
Non esiste chi conosce e chi è conosciuto, a meno che si ammetta una intenzionalità in questo senso e ciò è talmente ovvio che non necessita di spiegazioni.
Tra due cose o tra due persone esiste sempre una relazione, per il fatto stesso che esse esistono, ma una può conoscere l’altra solo se ne ha l’intenzione e nei limiti di questa intenzionalità.
Per esempio se io conto degli oggetti li vengo a conoscere, come quantità, se guardo al loro colore, li ammiro per l’aspetto, e così via.
La conoscenza, che è sempre supportata da una relazione naturale, e che è sempre un processo di distinzione, si fonda quindi su una volontà determinata di stabilire dei limiti entro cui sviluppare una data esperienza, quindi come risultato di un esperimento; tuttavia si basa sulla realtà che viene prima di questa stessa relazione e che è effettiva reale indipendente dal volere di chi è in rapporto.
Quindi essa è soggettiva nei limiti che si è posta ed è obbiettiva nella possibilità di porli: essa sarà quindi a volta a volta di carattere spirituale o sensibile-reale a seconda delle premesse insite nell’atto del conoscere.
Si tratta, quindi, di un rapporto con una realtà obbiettiva, ma sempre limitato, anche nel suo essere spirituale o materiale; quindi non erroneo, ma sempre in modo che può essere più completo e più comprensivo.
La verità è un dato di fatto, il mio adeguarsi ad essa è un processo sempre in sviluppo, non è mai un punto fermo di arrivo.
In altre parole, quando l’idealista dice: non esiste che lo spirituale, egli praticamente si comporta in questo modo: dal momento che io voglio conoscere lo spirituale, mi sfugge l’esperienza del materiale.
Il realista invece pensa: dal momento che io voglio conoscere il sensibile, escludo che ci sia lo spirituale.
Perché se la conoscenza è soggettiva, e se io ottengo quello che voglio, le conclusioni non possono essere molto diverse.
Verità
E’ sempre implicito nel concetto di verità un qualcosa che assomiglia ad una presa di coscienza e nel medesimo tempo ad una attestazione di certezza.
Eppure nel suo rappresentare la realtà risulta sempre ai nostri occhi parziale e in connessione con questo o quel giudizio che sembra metterla quasi in discussione.
Noi parliamo di una verità scientifica, morale, esistenziale, come se esistessero tante verità, perché noi ci accostiamo ad essa da tanti punti di vista diversi e la cogliamo sempre in relazione sia con il nostro modo di vedere, sia con il suo svilupparsi ed il suo estendersi.
In definitiva essa è sempre una confessione ed un riconoscimento di una relazione, che tuttavia non deve essere confusa con un modo di essere relativo.
Sarebbe relativa se consistesse in un rapporto tra particolari, è invece sempre una relazione di particolari nell’insieme del totale.
Quindi porta in sé le caratteristiche del particolare, ma sempre relate non solo tra loro, ma anche con il tutto e quindi la verità è sempre parziale, ma anche obiettiva.
Se dico relativa non posso dirla verità, se dico invece relata la vedo nella sua realtà, quindi obiettiva, anche se questo non significa esauriente.
Ne consegue che essa è sempre riproducibile, così come essa effettivamente è, posso sempre ritornare a ritrovare quella relazione che sussiste obbiettivamente, mentre non ritroverò mai una realtà che possa sussistere senza relazione.
Relativa vuol dire che dipende da me o da un qualche cosa e quindi non da una relazione indipendente da giudizi e opinioni, ma come io vorrei che fosse soggettivamente ed egoisticamente.
Invece come la coscienza deve essere responsabile, così la verità deve essere obbiettiva, cioè in relazione con il tutto e non solo con sé stessa.
La verità è una constatazione nella sua diversità di aspetti, libera da presupposti o pregiudizi, dettati dalla opportunità o condizionati dal proprio piacere.
Quello che avviene nell’apprendimento della verità, altrettanto si verifica nella sua comunicazione. Se io spiego ad un bambino una cognizione scientifica, cerco di farlo nel modo più semplice possibile, perché egli la possa capire con facilità. Quindi la mia spiegazione corrisponde alla capacità del piccolo; anche qui ci troviamo di fronte ad un rapporto che per essere obbiettivo, deve essere inteso come parte di un insieme, la cui costruzione avviene nel tempo e nello spazio, come è già stato detto più sopra.
Se io vedo un panorama, non posso per questo dire di conoscere tutta la regione come se l’avessi percorsa in ogni sua parte, eppure quando parlo di lei, a uno che la abita, non gli risulta estranea, anzi gli si fa presente persino con tutti quei luoghi, che conosce meglio di me, e che io non ho visitato.
Io posso dire concetti come li ho capiti, ma chi li ascolta li può intendere molto di più e molto meglio di quanto io non li riferisca, mentre se dico il falso, al massimo, lo lascerò solamente in dubbio.
Come se si socchiude la porta su una stanza si possono vedere alcuni dei suoi mobili, anche se non tutti, mentre sollevando il sipario su una scena con i mobili dipinti, anche se si vedono tutti, risultano essere sempre una finzione, nello stesso modo mi comporto se apro la mia mente alla verità o all’errore. Nel primo caso, il mio conoscere anche se parziale ed approssimativo è pur sempre corrispondente alla realtà, nel secondo invece, non può avere nessun significato ed è solamente fuorviante.
Quindi la verità, se è tale, non è relativa, anche se la sua relazione o con altre parole, la sua spiegazione, è diversa e acquisibile solo nei limiti del possibile, ma perché ha un riferimento nella realtà accessibile a tutti, anche molto meglio di quanto non lo facciano poi tutte le sue rappresentazioni messe insieme.
Ma questa corrispondenza tra il dire e l’essere ci parla non solo di una loro relazione, ma ci introduce a intuire che possa esistere su un comune fondamento, per via di un qualche cosa che lega quasi in modo naturale cose che di per sé si mostrano a noi quasi separate.
Ecco, e qui sta la soluzione del problema, la conoscenza assomiglia al procedere dall’unità alla distinzione e viceversa.
Infatti io posso intendere la conoscenza come una acquisizione personale della realtà nel suo insieme, ma questo non può avvenire che poco alla volta con il capire una cosa dopo l’altra. Per questo il ‘tutto’ e quindi il divino rimarrà sempre in qualche parte misterioso.
Mentre se il conoscere è inteso come il distinguere, allora, questo di per sé ci fa ammettere e quindi credere nel ‘tutto’; in altre parole il conoscere diventa implicitamente un atto di fede.
La verità consiste nella consonanza tra l’esistente e chi conosce.
Quello che è l’armonia per la musica, la pace per la società, altrettanto è la verità tra il proprio intelletto e quello che regge e giustifica ciò che è reale.
Essa non si vergogna mai di sé stessa, nemmeno quando non è stimata, e non è mai debole nemmeno, quando è concussa ed oppressa, non si chiude davanti al sospetto, ma svela i misteri, scopre l’ingiustizia ed è nemica del male.
E’ sempre quindi una relazione di un dato essere con sé stesso (è unica) e con gli altri (ha molti e differenti aspetti) ai quali esprime l’identità dello stesso essere.
Quindi nel discorso e nell’enunciato è meno attendibile dello stesso essere, perché ne è solamente una espressione, e lo è di più in quanto lo esprime fino a renderlo comprensibile.
Negare la verità non vuol dire negare l’essere, ma mettersi in disposizione al suo esistere, nel senso di favorire sia le sue capacità di relazionarsi sia le possibilità da parte nostra di avere un contatto con esso. (Il mio diavolo, che può essere rappresentato da un altro filosofo, ha cambiato questa frase asserendo che 'la verità non vuol dire negare l’essere, ma mettersi in opposizione al suo esistere, nel senso di contrastare sia le sue capacità di relazionarsi, sia le possibilità da parte nostra di avere un contatto con esso').
Quello che è invece solamente un errore di giudizio o di valutazione non è ancora una falsità, anche se può esserne già vicino. In questo caso la verità non è ancora piena, ma non è nemmeno preclusa, essa potrà completarsi nel tempo e nello spazio, per cui è esistente sempre e subito, ma non mai completamente.
Questo spiega come per arrivare a conquistarla non basta il desiderio o i buoni propositi, ma è necessario un esercizio talvolta faticoso che può perfino costare la stessa vita, mentre sbagliare in qualche caso potrebbe sembrare essere persino più facile: in questo senso alle volte basta solo esagerare, come quando ci si basa su una presunzione, o in senso opposto su una sottovalutazione, come succede per incapacità o per superficialità.
Bisogna sempre aver fiducia di arrivare alla verità, sapendo che è necessario l’aiuto di tutti, pur senza appoggiarsi agli altri, come se si mancasse di responsabilità, pronti sempre a collaborare con chiunque nel condividere le fatiche e l’impegno necessari per conquistarla.
Perché la verità è di per sé un bene preziosissimo, ma a cosa serve se non posso raggiungerla?
La verità e Dio
Molti filosofi affermano che Dio non può ingannare le sue creature lasciando loro credere a delle falsità senza che possano accorgersi, perché il fatto denuncerebbe una sua imperfezione.
Questo ragionamento, pur incontrovertibile, non è del tutto esente da pecche per due motivi.
Il primo è che indirettamente si mette in discussione l’esistenza di Dio tutte le volte che sbagliamo.
Il secondo consiste nel fatto che quando non si conoscesse perfettamente, al posto di indagarne le cause e di studiare i rimedi, in qualche modo ci si rimetterebbe implicitamente all’onnipotenza di Dio per essere illuminati, oppure si imputa Dio di non poterci aiutare.
Questo non contrasta con l’asserzione che ogni conoscenza è un atto di fede, perché ancor prima che nella realtà divina, questo credere è rivolto alla realtà delle stesse cose e delle persone. Se Dio si manifesta a me con la sua provvidenza, in un modo simile le cose si esprimono nei miei riguardi con la loro provvidenza.
Anche se io non capissi come avviene la conoscenza non posso, per questo, dubitare di conoscere. Io avverto di sapere nell’atto di conoscere ed ammetto l’esistenza delle cose ancor prima di averla dimostrata.
In un certo senso ammetto persino l’esistenza di Dio, ancor prima di ragionare sulla sua esistenza. Come ammetto l’esistenza di quello che vedo, non posso nemmeno negare, per partito preso, l’esistenza di quello che sento con i sensi interni.
Poi posso studiare e riflettere sia sulle cose che sulle realtà soprasensibili, e quindi le posso indicare con dei nomi che le significano, ma che non ne esauriscono il significato. Per descriverle avrò bisogno di molti più segni e di molte più parole di quante io ne possa avere o usare, tanto che ne dovrò formulare sempre di nuove, man mano che la mia conoscenza si approfondisce.
La conoscenza come possesso
La conoscenza non consiste nell’appropriarsi del conoscibile, semmai è la manifestazione di esso agli occhi di chi lo considera e reciprocamente anche il manifestarsi dell’osservatore nei suoi riguardi.
La conoscenza in quanto è il manifestarsi del conoscibile è anche la sua spiegazione e quindi diventa essa stessa possibilità di spiegazione per gli altri. Chi ha imparato qualcosa è sempre capace poi di insegnarla.
Conoscere e sapere
Nello sviluppo dell’uomo il processo del conoscere passa attraverso successivi stadi differenti.
Il bambino impara a conoscere il possibile: quello che egli può raggiungere sia con l’immaginazione, sia anche fisicamente con le sue gambe. C’è una età in cui egli va ad aprire tutti i cassetti e a toccare anche quello che non deve. In questo modo egli costruisce il suo mondo che crea fantasticandolo, perché materialmente difficilmente lo può esplorare del tutto.
Il giovane viene a contatto con una realtà che lo rende cosciente delle sue possibilità. Egli deve quindi e vuole esserne all’altezza. Si propone degli ideali e nel medesimo tempo presume al di là delle sue forze. Il suo conoscere diventa verificare la sua vita e farla diventare consona ed adatta all’ambiente che deve affrontare. Se il bambino creava la sua realtà possibile, per il giovane invece è la realtà che crea le sue possibilità in lui.
La persona adulta vive nelle possibilità che ha a disposizione e nel realizzarle le viene a conoscere. Si accorge così che da solo non può far niente e che è parte del tutto, ma in questo modo può essere collaboratore: produrre e generare nuove possibilità.
Quindi il possibile non è il potere. Esso è molto di più di qualsiasi potere, perché il non ha limiti, mentre il potere dipende da quello che riesce a fare io, e a far fare agli altri, inducendoli con qualche buona o cattiva ragione, secondo i casi.
In questo senso il possibile è un dono.
Ora chi riceve un dono si trova davanti a qualcosa che è oltre le sue prestazioni.
Si può fare un esempio: chi riceve qualcosa e non qualcos’altro può rimanere sorpreso ed essere appagato o deluso. Ma dopo la prima impressione, magari solo perché deve accettare il dono, si accorge che può essere soddisfacente, persino utile e quindi accettarlo contento. Questo accettare si chiama conoscere: è il processo che ci porta a vedere tutti i vantaggi che riceviamo con la vita e con i suoi doni.
Ma la conoscenza dell’uomo non si ferma qui
Se egli ha ricevuto durante tutta la sua vita la spiegazione di ogni manifestazione della realtà che gli ha permesso la conoscenza, egli sul punto di morire può consegnare la spiegazione di sé stesso. Dopo aver ricevuto si appresta a donare tutto, anche la vita, ed egli manifesta così di essere a sua volta quel dono per gli altri che egli ha ricevuto per se stesso. Se prima di questo tempo il conoscere era affrontare e comprendere tutte le possibilità ora invece egli conosce come essere ‘la possibilità stessa’. Prima per lui il conoscere dipendeva dal suo vivere ora il suo vivere dipenderà dal suo conoscere.
In cielo la nostra vita consisterà nel nutrirci dell’eterna Sapienza.
Questo argomento ha bisogno di ulteriori spiegazioni, ma l'averlo già posto ne rende palese la sua importanza.
De-erotizzazione
La de-erotizzazione è una sorta di mistero riconosciuta persino da Freud di non facile spiegazione, perchè da quel che serve per arrivare a ciò che rappresenta un ideale c'è un passaggio difficile e non sempre puro, d'altra parte bisogna accettarla così come avviene per conoscerla e per servirsene al meglio.
Quando il bambino raggiunge l’età dei tre anni comincia a perdere l’attaccamento fisico ed ad acquisire una sorta di attaccamento operativo con la realtà.
E’ un periodo di tensioni ambivalenti: prima d’ora il bambino aveva un rapporto quasi costante solo con la madre ed, ancora prima, quando era in gestazione, esclusivamente con essa, ora comincia anche a rivolgersi al padre.
Più avanti a sei anni la mamma stessa sembra quasi mandarlo dal padre, ma egli lo manda a scuola o, meglio, il bambino ha questa impressione ed impara una nuova dimensione sociale del suo mondo.
Avviene a questa età un cambiamento radicale nei rapporti con i genitori, si verifica nella sua crescita psichica e nel suo sviluppo conoscitivo, una maggiore richiesta di distinzione, per questo egli è ormai in grado di badare alla maggior parte dei suoi bisogni personali da sé, anche se non è del tutto libero dalle cure fisiche dei genitori.
Con la pubertà avviene un altro passo avanti nel processo della distinzione.
L’adolescente non si rivolge al papà malgrado la mamma lo rifiuti anche fisicamente e la giovanetta va dal papà credendo inavvertitamente di avere una relazione con lui, che egli però rifiuta.
Comincia un processo che gli psicanalisti indicano con il termine de-erotizzazione dei concetti, con tutte le conseguenze connesse, come certe forme di ascetismo e di radicalizzazioni estreme.
L’adolescente impara ad idealizzare i concetti, per esempio distingue un significato fisico ed uno ideale nella parola ‘amore’. È la situazione in cui il suo pensiero diventa formale e la realtà viene discriminata alla luce del possibile.
Egli non solo si sente inconsciamente rifiutato dai genitori, ma si sente di rifiutarli, ad esempio il giovane non vuole avere la relazione che aveva prima con la madre, perché si accorge che non è ‘sua’, egli comincia a capire che è del padre, ma non come una proprietà bensì in una relazione che supera il concetto di connessione proprietaria anzi che trascente la realtà psico-fisica.
Quindi dal punto di vista fisico egli comincia a costruire determinate relazioni e, da un altro punto di vista, altri rapporti, per così dire, ideali.
Questo processo che comincia con la pubertà non ha termine se non nell’età avanzata, quando l’uomo maturo si libera del tutto dai concetti di proprietà e soddisfazione, in quanto si accorge a poco a poco di perdere ogni cosa, anche materialmente, e comunque irrimediabilmente con la morte, per assumere un’altra conoscenza di esse, come chi vede la realtà non più riferita a sé stesso - e quindi in ordine ad un proprio utile, per cui distinguendo gli oggetti, alcuni li scegli, altri li rifiuta, mantenendo con loro un rapporto di parte e di parti - ma la contempla dall’Uno.
Si tratta di un processo necessario, di de-fruizione, che lo prepara ad una vita senza confini.
Il passaggio dalla prima a quella definitiva comporta un trauma che, visto con gli occhi suoi e dei suoi contemporanei, assomiglia alla morte, mentre con quelli di chi lo attende, manifesta la nascita della sua nuova esistenza.
Definizione
Conoscere significa applicare nella relazione dei distinguibili, un mezzo per poterli distinguere, cioè porre un intermediario tra i due.
Questo ‘in mezzo’ è anche ‘con un mezzo’.
In altre parole è anche un modo per misurare: distinguere e misurare diventano sinonimi.
La relazione con questo mezzo diventa una delimitazione, essa viene definita: è come dire di una cosa: essa va da qui a lì.
La conoscenza è fatta di tre elementi: il conoscente il conosciuto ed il mezzo che li unisce e li distingue. I mezzi più comuni sono la nostra esperienza unita a quella degli altri, la riflessione, la memoria, la critica, la sperimentazione ecc., ma tutti questi sono dei mezzi, mentre il ‘mezzo’ per antonomasia della conoscenza è la stessa possibilità di conoscere che non dipende se non dal suo essere costante, non certo dal soggetto o dall’oggetto.
La conoscenza quindi in quanto misura esprime sempre dei valori rapportati a delle costanti.
A ben considerarela conoscenza dei valori è più propriamente una riconoscenza, ovverosia un attaccamento che coinvolge l'affettività e non solamente la ragione (in altri scritti mi sono soffermato su questo argomento).
Sviluppo intellettivo
Ogni conoscenza è un aumento progressivo di distinzione e nello stesso tempo una denuncia e un attestato dello sviluppo cognitivo del soggetto conoscente.
Ma ancora prima dell’età infantile questo processo distintivo è preannunciato nello sviluppo del feto.
All’atto del concepimento, l’ovulo e lo spermatozoo si separano dalla donna e dall’uomo per costituire una nuova unità, in un essere nuovo.
Ovviamente non si può affermare che il feto sia in grado di conoscere.
Tuttavia poiché anch’egli è in relazione con il suo ambiente e questo suo modo di rapportarsi è già predisposto per essere intellettivo, si può, già a questo stadio, parlare di una conoscenza pre-intellettiva ed anche pre-sensoriale.
Gli organi di essa risiedono nella madre che ha una funzione vicaria e di scudo nei suoi riguardi. Ella lo protegge dalle cognizioni che egli non può ancora valutare ed elaborare e nello stesso tempo gli trasmette e gli rende disponibili quelle che sono utili ed adatte per lui.
In questo senso il feto potrebbe conoscere la fame, se la madre è denutrita, e la sofferenza per la mancanza di ossigeno, se la madre è intossicata, oppure la soddisfazione di essere sufficientemente provveduto ed ossigenato.
Si potrebbe ipotizzare che uno stato ansioso della madre oppure aggressivo o, al contrario, di soddisfazione come possono condizionare il suo approccio con la realtà, possano anche, per via umorale, provocare delle sensazioni analoghe nel feto, e predisporre il suo modo di conoscere, se non addirittura dare una certa impronta alla formazione degli organi della conoscenza in questo senso, ma tutto ciò ha per ora solamente un valore non del tutto indagato scientificamente.
Mentre invece è evidente come insieme alla gestazione del feto, già all’inizio si costruisce quella barriera che distingue il prodotto del concepimento dalla madre: l’organo placentare, quasi una pelle aggiunta, che lo distingue e lo connette anche fisicamente con il suo mondo esterno.
Alla nascita avviene un drammatico cambiamento nelle relazioni del neonato con l’ambiente, che rimane pur sempre rappresentato, quasi in misura esclusiva, dalla madre o da un suo sostituto.
Si effettua una de-connessione fisica tra lei ed il bambino, con un rimaneggiamento anatomico e funzionale. Questo comporta un trauma che, visto con gli occhi del neonato, assomiglia alla morte del suo stato uterino, mentre con quelli di chi lo attende, manifesta la nascita della sua nuova esistenza.
Corrispondentemente a questo suo distinguersi dalla madre, egli inaugura l’inizio del processo conoscitivo, imbocca la strada di ogni successiva distinzione.
Intelligenza senso-motoria
Il lattante vive in un universo che non possiede spazio propio, tempo misurabile, un prima e un poi corrispondente e causale, né la permanenza della realtà. Solamente un poco per volta riesce a distinguere il sé dal mondo che lo circonda. In questo modo, distinguendo, da una sorta di confusione individua le caratteristiche particolari di se stesso e delle varie realtà esterne. Nasce così una conoscenza pratica e sensibile dell'oggetto conosciuto e, di riflesso, del soggetto conoscente ma, nello stesso tempo, delle possibilità del suo agire cosciente.
In questo stadio la conoscenza non arriva alla immaginazione, essa si ferma alla percezione.
Intelligenza simbolica
Il pensiero rappresentativo nasce quando il bambino distingue tra quello che egli dice e quello che percepisce, e distingue anche tra sé stesso e l’oggetto che è significato nel nome.
Mentre prima egli per conoscere qualcosa lo doveva in un certo senso afferrare, ora il suo rapportarsi ad esso diventa libero da un agire, potendosi anche realizzare nel pensare e nell’immaginare.
Si tratta di un evidente progresso nel distinguere. Egli può in qualche modo de-sensibilizzare il suo processo conoscitivo, non nel senso che può fare a meno dei sensi, ma che può integrare, o sostituire, il loro uso, conoscendo anche attraverso i simboli e i nomi.
Non considerando quindi i sensi come necessari, egli diventa libero di effettuare non solo distinzioni più accurate, ma di collegare in una unità superiore i vari oggetti conosciuti.
In un primo tempo, tra i due e i sei anni, potrà rievocare o ricordarsi e immaginare o fantasticare non solo l’oggetto, ma gli oggetti appartenenti allo stesso simbolo e potrà metterli in relazione con la rievocazione operata dai suoi simili. Ma ben presto, e fino all’adolescenza, potrà operare su queste immagini, le considererà interdipendenti, raggruppandole ed accostandole in combinazioni diverse. E’ il tempo in cui il bambino raccoglie in serie e classifica le cose più disparate dai bolli ai tappi delle bibite, ma anche le immagini e le fantasie.
Tuttavia egli non riesce a fare una distinzione che sarà tipica dello sviluppo successivo: le sue immagini e i suoi simboli sono ancora legate alle cose reali, quasi che ad ogni immagine corrisponda una realtà, per esempio il nome e il simbolo di 'cane' è sempre associato ad una realtà definita come se non esistesse un 'cane' per tutti i cani, bensì quel cane di quel suo amico o quell'altro del vicino di casa e così via.
Tuttavia, se nella prima infanzia il suo modo di comportarsi, per così dire, quasi automatico, sembrava ammettere da parte sua un implicito riconoscimento della costanza dei rapporti ora è egli stesso che ne ha coscienza. Egli avverte e riconosce le costanti della realtà, cioè le conservazioni fisiche, spaziali e numeriche. In questo modo si prepara ad affrontare la tappa successiva del suo sviluppo conoscitivo.
Intelligenza formale
Nell’adolescenza compare una nuova capacità, la riflessione.
Il giovane non solo percepisce, ricorda e sperimenta, ma anche pensa sui suoi pensieri.
Questo è possibile perché egli viene man mano conoscendo un mondo che non dipende solamente dai sensi o dai simboli.
Le varie realtà gli si presentano non solo per quelle caratteristiche che le distinguono, ma anche con quelle che descrivono il loro esistere. Compare la conoscenza di tipo proposizionale.
Egli stesso comincia a costruirne la storia: nel conoscere, ha dei ripensamenti, delle rivalutazioni che, se da un lato, lo portano perfino a prendere delle posizioni estreme, dall’altro, a provare, per la prima volta, la soddisfazione del filosofare.
In questo periodo normalmente perfeziona la propria identità, la distinzione di sé stesso lo porta ad avere atteggiamenti di contrasto e di giudizio persino nei confronti dei suoi genitori, ma, proprio per questo, egli costruisce la sua responsabilità che lo porta sempre più a liberarsi non solo del suo egocentrismo, ma anche del suo egoismo.
Conclusione
L’uomo si sveglia avvolto dalle nebbie del mattino, scorge delle sagome, avverte dei rumori…
Man mano che si alza il sole distingue la natura, le piante, gli animali, i suoi simili, i pensieri e vede che le cose stanno tra loro vicine, sono in rapporto, risultano di utilità l’una per l’altra.
L’uomo si affaccia su un giorno radioso ed ammira l’unità dell’universo che si spalanca di fronte a lui.
E, se negasse il sole, si troverebbe nelle più fitte tenebre, a procedere a tentoni, continuamente in pericolo di venirsi a scontrare con ogni più piccolo frammento di realtà.
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