martedì 9 febbraio 2010

Psicologia e vangelo



Lo psicologo e il medico possono credere?

(Intervista)

Quanto il campo della psicologia e quello della religione siano vicini, tanto da sconfinare, anche se raramente, l’uno nell’altro, ce lo dice il fatto che, come è soprattutto capitato negli anni passati, qualcuno pensava di sostituire il sacramento della confessione con le sedute analitiche e qualcun altro non ammetteva che certe condotte anormali fossero da attribuirsi più a degli ammalati che non a dei peccatori.
Questa intervista ci può aiutare ad introdurci nell’argomento.

Gesù è stato uno psicologo?

Certe volte si crede di capire Gesù e il suo comportamento come se egli non fosse stato un uomo, lo si vede invece come una specie di superuomo, dotato di poteri magici o di qualcosa di irreale.

Non era Dio?

Certamente, ma era anche vero uomo.
Allora per rispondere alla sua domanda: Gesù ha vissuto ogni fase della vita umana, ha affrontato i conflitti psichici che la crescita, dall’infanzia alla maturità porta con sé e li ha risolti con quei mezzi che aveva a disposizione.
Il risultato è che ci ha mostrato di possedere uno psichismo eccezionalmente equilibrato.
Quando si vuole considerare un Gesù della fede, quasi costruito dalla nostra necessità di credere, questo suo aspetto può sfuggire alla nostra attenzione.
Quale è secondo lei, questo suo psichismo?
Prima di rispondere a questa domanda mi sembra opportuno dire che cosa si debba intendere per psicologia.
L’uomo nella sua vita ha determinati scopi che raggiunge secondo certi criteri, sfruttando le sue capacità.
La tecnica d’uso delle sue capacità a questo fine è di pertinenza della psicologia, in altre parole essa può essere considerata come il manuale delle istruzioni di quella macchina che è il nostro cervello. La psicologia quindi non indica i valori da perseguire, ma ne studia i mezzi a nostra disposizione per poterlo fare.
Pertanto il suo ambito è indipendente dai fini che persegue l’uomo e dai criteri per valutarli, essendo tuttavia a servizio di essi non ne è nemmeno del tutto libera.
Quindi di per sé è uguale sia per il credente che per l’ateo; ma come il medico che dà consigli di igiene, o come usare i metodi anticoncezionali, non può non tenere conto della morale del suo cliente, così anche lo psicologo ha a che fare con un uomo che non è del tutto e solamente una macchina.
Quindi come scienza non deve basarsi sui valori fondamentali dell’uomo, tuttavia nella sua applicazione pratica nessuno, e nessun psicologo in particolare, potrà mai fare a meno di tenerli in considerazione.
Del resto è impossibile rimanere del tutto neutrali di fronte ai problemi della vita: quando si dice per esempio ‘terrorista’, oppure ‘combattente per la libertà’ ci si è già espressi con un giudizio di valore, anche se si avesse voluto indicare solamente un tipo di attività.
Allora si può parlare di Gesù come di uno psicologo?
Egli è stato maestro: i suoi insegnamenti si presentano di una serietà ed esigenza senza paragoni eppure sono pervasi, nello stesso tempo, da un ottimismo ed una fiducia nei nostri riguardi, che fa leva su quelle capacità, che alle volte neppure noi sospettiamo di possedere: egli ha spesso rivelato ai nostri occhi una realtà diversa da quella abituale, che alle volte è così limitata all’occasionale ed al contingente.

Per esempio?

Basta vedere come si comporta in occasione di quei banali contrattempi che riescono ad infastidire chiunque e a rovinare l’umore dei meglio predisposti.
Un episodio del vangelo per tutti: ai discepoli preoccupati di essere rimasti senza pane, fa presente l’importanza di questioni ben più gravi, che rendono del tutto secondaria una simile mancanza (Mc. 8, 14-21).
Altre volte le sue rassicurazioni si spingono fino all’incredibile: “Se aveste un granello di fede potreste dire a questo monte gettati in mare ed egli lo farebbe”. (Mt.21, 18-22).
In questo contesto si capiscono meglio i suoi rapporti con i bisognosi, i malati, l’adultera non condannata e persino con i bambini, che erano riusciti, senza fatica, ad infastidire Pietro e i discepoli (Mt.19, 13-14).
Se la società arrivasse sempre a dare sicurezza e fiducia perlomeno ai bambini, come Gesù ha fatto, accogliendoli, almeno in quel momento, a preferenza degli stessi apostoli, il mondo sarebbe già da ora diverso e tra pochi anni completamente cambiato.
Qualsiasi psicologo sa quali gravi disturbi della personalità negli adulti abbiano avuto origine in una mancanza di attenzione nei loro riguardi nella più tenera età.

Se tutto questo significa aver fiducia in Dio, non ci troveremmo allora in un ambito che è al di fuori della psicologia?

Dal punto di vista psicologico non è tanto necessaria la fiducia in Dio, quanto la fiducia stessa. Tuttavia se qualche psicologo troverà a proposito un oggetto o una qualsiasi altra persona che offra maggiori garanzie di Dio stesso, ce lo dirà certamente a nostro beneficio e per la nostra sicurezza, ma è difficile pensare che Gesù, in quanto Dio, possa aver proposto un altro punto fermo che non sia lui stesso (Mt. 11, 25-30).
La sua grandezza sta nell’averci svelato nella figura del padre che attende il figlio prodigo, le caratteristiche di un Dio che ama chi è meno amabile, perché ha sbagliato o perché è nel bisogno (Lc. 15, 11-32).
Se egli ce ne avesse indicato uno che permette ogni errore, nessun uomo si sarebbe sentito capito sotto il peso dei propri sbagli, né incentivato nel desiderio di migliorare, se invece ci avesse parlato di un Dio che non ammette colpe, nessuno avrebbe potuto affrontare con qualche speranza sé stesso e il suo mondo.

Ma questa visuale potrebbe nascondere una illusione senza alcun fondamento nella realtà? In altre parole chi ci assicura che, se Dio esiste, è quello amorevole rivelato da Gesù?

A questo punto ci propone un altro suo intervento, diciamo pure, curativo a rimedio della nostra sfiducia che noi potremmo avere proprio con chi invece ce la può dare.
Ci dice che noi dobbiamo amare i nostri nemici e fare del bene a chi ci fa del male, e qui sta il nocciolo della questione, perché dobbiamo essere giusti come il Padre nostro che fa splendere il sole sui buoni e sui cattivi (Mt. 5, 43-48). Gesù condiziona la nostra fiducia in Dio a quella che noi abbiamo in noi stessi, ma non solo, la collega allo stesso meccanismo che domina l’universo, dove ogni bene e la stessa vita è a disposizione di tutti, anche di quelli che li usurpano per scopi contrari alla stessa natura.

Ma non è un discorso arduo che toglie la fiducia a chi già ne ha poca?

Alle volte le persone vorrebbero essere quello che non sono, per cui si scontrano con la loro realtà, sperimentano i propri insuccessi che aumentano le loro insicurezze, rincorrono di nuovo un qualcosa che sfugge, che non possono raggiungere, tanto da trovarsi alla fine davanti ad un baratro.
Tipica a questo proposito è la scelta della professione, che talvolta è influenzata da una ricerca di un certo ideale. Le persone intelligenti arrivano ad occupare quel ruolo che vorrebbero rivestire e non quello che è secondo le loro attitudini. Chi è passionale e ricco di affettività, proprio perché vorrebbe essere un uomo equilibrato, magari arriva a diventare giudice e a emettere quei giudizi che potrebbero persino non essere privi di una certa passionalità.
In questo senso è vero quello che lei dice: cioè che la sicurezza può venire compromessa proprio da una fiducia in noi stessi che si fonda più sui desideri che sulla realtà.
E Gesù non indugia a far crollare ogni illusione proponendo uno stile di vita7 che avrebbe potuto spaventare chiunque (Mt. 5, 27-30. 7, 13-14).

Effettivamente molti dicono che la morale ecclesiastica forse andava bene una volta, ma oggi è improponibile. Come la può condividere un malato di perversione sessuale o di ossessioni compulsive?

Le malattie in quanto tali devono essere curate dal medico.
Anche Gesù certi discorsi li faceva alle persone sane. Diversamente si comporta con un ossesso che egli aveva liberato dal Demonio e che probabilmente aveva una psiche debole: egli non accoglie la sua richiesta di poterlo seguire (Mc. 5, 1-19), mentre in altra maniera aveva invitato gli apostoli e il giovane ricco a farlo (Mt. 19, 16-26).

Ma anche per una persona normale e sana i programmi di Gesù sembrano alle volte impossibili!

Ed egli non lo nega, ma soggiunge: “Quello che è impossibile agli uomini è possibile a Dio” (Mt. 19, 26). Una frase del genere nella sua bocca significa molto di più di un rimedio infallibile.
Mi spiego con un esempio.
Se una persona affetta da una malattia inguaribile si sente dire da qualcuno: “Solo il medico ti può guarire…”, egli penserà certamente: “O questo è un medico o un competente in materia che sa il fatto suo, oppure dice così tanto per consolarmi”.
Allo stesso modo quando noi sentiamo Gesù dire: “Solo Dio…”, non possiamo fare a meno di pensare che solo lui è in grado di sanarci.

In che modo? Con i miracoli?

Certamente ci sono esperienze, non troppo rare, di persone che hanno messo la testa a posto in un modo miracoloso.
Basta pensare a quel santo, Giovanni di Dio, che è stato egli stesso, se non pazzo, almeno un poco psicolabile e che non solo è guarito, ma ha anche fondato un istituto ed una famiglia religiosa per curare i matti come ammalati e non come delinquenti, prima che qualsiasi medico abbia mai pensato di farlo.
Tuttavia egli non ci lascia senza quei rimedi pratici, non straordinari, quelli che potremmo chiamare adatti alla giornata che, per così dire, dipendono più da noi che non dal Signore.
Essi possono sembrare a chi non conosce la psicologia troppo semplici, mentre sono tanto efficaci ed altrettanto attuali per ottenere risultati che sembrano miracolosi.
Il primo è quello di affrontare sempre e solamente un problema alla volta. Non quello che la paura di non esserne all’altezza ce lo fa apparire più urgente, non quello che ci rende più ansiosi, ma quello che si presenta in ogni momento, in modo di dipanare la matassa della nostra confusione, risolvendo una istanza dopo l’altra (Lc.12, 22-31).
Perdere la preoccupazione è quasi sinonimo di acquistare fiducia.

Ma questo richiede un esercizio impegnativo e occorre del tempo per impararlo?

Non esistono medicine miracolose. Qualsiasi terapia, anche quelle psicologiche sono sempre delle cure. ‘Cura’ in latino vuol dire fatica e pena. Del resto quel che non costa niente non vale anche niente.
Eppure anche questo impegno può essere assolto in un solo momento di ogni momento e quindi abbastanza facilmente nel migliore dei modi e non come quando si fanno troppe cose, che alla fine riescono tutte male.
Questa si può considerare la miglior medicina contro le nevrosi e l’ansia.

Ed il secondo?

È veramente un metodo rivoluzionario per quei tempi e forse anche per i nostri.
Si tratta di una sua raccomandazione a chi si sente in dovere di affliggersi per i propri sbagli: quella di mantenere un viso allegro, curare la propria persona e non dare a vedere agli altri di essere abbattuto (Mt. 6, 16-17).

Ma non è questa una sorta di auto imbroglio?

Bisogna usare la finzione per impostare da capo quegli stati d’animo che non sono veri (non corrispondenti alla realtà). Quando siamo depressi dobbiamo sorridere, perché la depressione non è una realtà, in questo caso siamo più veri, fingendo di essere contenti, che non rimanendo con il muso lungo e, in effetti, di conseguenza, siamo già sulla strada di guarire da questo male.
Ben diverso è invece il caso di quando noi neghiamo la verità, in questa situazione il nostro fare assomiglia al volere usare il martello non per battere il chiodo, ma per piegarlo malamente.
Gesù che si è mostrato comprensivo nei riguardi delle prostitute e delle persone ai margini della vita sociale, non ha esitato a condannare con durezza i farisei che stimavano la menzogna una tecnica necessaria dei rapporti umani e che serve invece sempre ad imbonire la gente.
Come loro molti, anche al giorno d’oggi, sembrano assumere nei riguardi degli altri un comportamento di sfiducia di base, che prendono come pretesto per poterli ingannare, convinti come sono di essere gli unici depositari della verità.
Li si trova facilmente affetti da uno stato di permanente reazione allergica, di aggressione sospettosa, come se l’artigiano tenesse il martello alzato pronto a calarlo su ogni cosa, dalla più resistente alla più delicata.
Non si può arrivare alla verità con la menzogna. Rimanere, per esempio, in uno stato di lotta permanente, oppure di compiaciuta esaltazione, come se lo scopo della vita fosse unicamente arrivare al potere, o godere solo del piacere.
Se avessimo sempre il sorriso sulle labbra, forse scomparirebbero la metà sia degli stati maniacali che di quelli depressivi.
Questa terapia, come aiuto a quella di base, potrebbe riuscire risolutiva specialmente per quei ammalati che fino a qualche tempo fa non si tentava quasi nemmeno di trattare, come le persone anziane, senza più la voglia di vivere, davanti alla fatalità del loro declino. A questo proposito noi sappiamo dalle statistiche come essi detengano, insieme ai giovani in crisi di pubertà, il primato del maggior numero di tentativi suicidari riusciti.

Può fare un esempio?

Ricordo un collega dentista, quando davanti alla pensione dovette cedere la sua attività.
Passava tra le macchine dell’ambulatorio che gli avevano servito sempre a dovere e alle quali nessuno dava un valore perché ormai superate. Guardava il riunito con gli attrezzi di lavoro che nelle sue mani avevano alleviato tanto dolore, ma che ora non erano più a norma di sicurezza, secondo le ultime disposizioni di legge. Riconsiderava l’elenco dei suoi pazienti e li trovava tutti più giovani di lui e senza più bisogno della sua opera.
Avrebbe dovuto considerarsi un fallito?

Ma il tempo passa per tutti?

Passerà per tutti, per lui invece era già passato!
Come si può curare la depressione nell’anziano?
Certamente non con il dirgli: “Hai avuto la tua dose di gioventù, è ora che ti fai da parte!”.
Nessun psicologo userebbe questi argomenti e con essi nessun vecchio si sentirebbe consolato!
Ebbene se quel mio amico aveva a prima vista tanti motivi per non essere contento, non era invece minimamente addolorato.

Perché?

Ci sono due modi di considerare il tramonto della vita. Quello di colui che la conclude e quello di chi la perde.
Quest’ultimo si sente derubato di un bene, il primo vede la possibilità di farne un dono.

In che senso?

Una persona che sta comoda sul suo divano può anche farsi un poco da parte per far sedere un altro, ma ancora di più: lasciare il suo posto a chi sopravviene.
Gesù a suo tempo avrebbe avuto tutti i diritti per resistere sulle sue posizioni, nessuno lo avrebbe incolpato se avesse organizzato una opposizione armata contro i suoi nemici, come più tardi farà, per esempio, Maometto, ed invece egli ha concluso la sua vita senza pretese né contese, come una offerta nemmeno richiesta, ma volontaria (Gv: 10, 14-18). Egli che aveva detto ora sarebbero necessarie le spade (Lc. 22, 35-38), ha rimproverato poi colui che la trasse dal fodero per difenderlo
(Lc. 22, 47-53). Eppure facendo così non solo ha reso più evidente la falsità di chi lo accusava, ma soprattutto ha dato ad ogni uomo e a noi stessi, il più delle volte impotenti e, nel caso di cui si sta parlando, alle soglie della fine, la possibilità di essere come lui, altri lui stesso, persone che lasciano il loro posto per amore e non per necessità e, almeno per questo, meno indegne di abitare con lui nel suo regno.
Tutti i suoi insegnamenti, anche le sue parabole, ci portano a poco a poco a questo sublime destino: si tratta di prendere l’ultimo posto al banchetto (Lc. 14, 7-11) del nostro tempo e di rimanere in fondo al tempio come dei peccatori, ( non solo perché si è fatto il male, ma per non aver tentato nemmeno di fare quel bene che il Padre si aspetta dai suoi figli (Lc. 18, 9-14.

Ma se la vita deve svolgersi su un tenore del genere con il risultato di perdere anche quel poco che si è fatto, allora forse non vale nemmeno la pena d’essere vissuta?

Se per un Dio è valso la pena farsi uomo, a maggior ragione per un uomo non può esserci una esitazione a farsi figlio di Dio, o meglio, a mettersi fin d’ora nelle sue mani per diventare egli stesso.
Prima di lasciarci su questa terra ha detto: “Farete cose più grandi di me” (Gv. 14, 13), naturalmente rimanendo in unità sempre con lui.

Ma chi può dire di essere riuscito ad arrivare all’altezza di una simile asserzione?

E’ vero, anche se nessuno può dire di aver fatto opere grandi come quella di aver dato la sua vita per gli altri, lo può fare sulle soglie dell’eternità, perché gli viene richiesto e perché può rispondere affermativamente, mosso dalla necessità, ma non costretto da essa.
Questo suo atto che non può essere procrastinato e che può invece essere compiuto fin che è possibile, con completezza e solennità, può giustificare tutta una vita, riesce a spiegarci in maniera più comprensibile la scelta da parte di Dio di volere essere un uomo.

Se la psiche di Gesù è così fatta, allora quella religione che ci propone è frutto del suo psichismo? Si deve considerare la religione alla stregua di una tecnica che ci permette di salvarci dai nostri conflitti?

Si può fare un paragone: prendiamo il caso di chi non sa risolvere un problema perché si sente stanco, allora si ferma a prendere un caffè e poi trova la risposta che cercava. Dobbiamo chiederci: lo ha risolto lui con la sua testa, oppure l’eccitante che ha bevuto? Il problema era reale e la soluzione adeguata. Come non si può dire che il caffè vale più della ragione, così nemmeno che la ragione serve al posto della religione.
Per arrivare alla fede ci si deve servire della ragione e l’una non sostituisce l’altra.
Non si tratta di un modo di pensare sulla base di una fantasia, semmai si può concedere che si faccia uso perfino della fantasia, ma solamente se ci apre le porte della riflessione sulla realtà.

Ma vi sono delle difficoltà obiettive talmente dolorose, se non crudeli, e ben difficili da accettare, che sembrano sopraffare ogni umana sopportazione!

Tuttavia anche a queste noi siamo costretti a trovare un atteggiamento di risposta.
Di fatto davanti a situazioni del genere noi vediamo che si possono scegliere due condotte diverse: la prima di speranza, che comprende anche l’aver pazienza e saper aspettare, l’altra di disperazione, espressa sotto le più diverse forme, dall’indifferenza opaca, alle lamentele addirittura isteriche.
Ma c’è anche un terzo modo di fare che presenta addirittura delle caratteristiche, passi la parola, ‘diaboliche’.

Diaboliche?

Diciamo: non dignitose per un uomo.
Quello provocatorio di chi esige un diritto che non ha.
Un mio collega, specialista in chirurgia estetica, mi raccontava di essersi trovato di fronte ad una situazione imbarazzante.
Una sua cliente adolescente avrebbe dovuto sottoporsi ad una operazione del viso ed ad una cura lunga e piuttosto costosa. Mentre il padre, un modesto manovale, era impensierito non solo per l’aspetto medico del problema, ma anche per quello finanziario, lei protestava con arroganza: “Mi hai messa al mondo, adesso arrangiati a mantenermi!”
Se la pretesa era scusata dall’inesperienza e dalla giovane età della paziente, l’episodio non era tuttavia meno increscioso per il collega, né meno doloroso per il padre.
Nel vangelo c’è un episodio analogo, mutatis mutandis.
Gesù nel deserto dopo quaranta giorni di digiuno ha fame, si trova in necessità, e il Diavolo gli suggerisce di pretendere dal Padre il pane (Mt. 4, 1-4).
E’ questo l’atteggiamento a cui mi riferivo: quello di chi avanza diritti, senza nemmeno accorgersi che la propria richiesta dipende dall’incapacità di essere sufficiente a se stesso.
La conclusione è inevitabile: chi vuole il dono, ma non l’amico, non ottiene l’uno e perde l’altro, in parole povere, chi in queste occasioni, non si sente subito accontentato dal Signore finisce presto con il perdere anche la fede in lui.

Eppure in certe circostanze non solo noi non ci poniamo in un atteggiamento provocatorio, ma ci veniamo addirittura a trovare in situazioni di disperazione ineluttabile. Come può credere in un Padre buono chi si trova davanti a tragedie immani come le catastrofi naturali, la fame nel mondo, le stragi di una guerra in cui ci si trova coinvolti senza averlo voluto?

Si tratta di situazioni veramente angosciose, dove la ragione non arriva spesso a controllare i sentimenti, né risolvere le tensioni relative.
L’uomo come un bambino si trova spettatore di una specie di ‘scena primaria’ di natura e di rilevanza cosmica alla quale non è preparato né affettivamente, né razionalmente.

Cosa si intende per ‘scena primaria’?

Si tratta di un termine tecnico per indicare una certa fantasia, sia innata nella mente del bambino, sia da lui acquisita per una qual intuitiva esperienza, che riguarda il rapporto procreativo dei suoi genitori; nel suo inconscio la considera come una violenza del padre nei riguardi della propria madre.
In un modo analogo l’uomo rivive la sua terribile angoscia di fronte all’opera di Dio nel creato, quando egli sembra irrompere con la sua onnipotenza nei limiti troppo angusti dell’intero universo. Questa scena drammatica ed inspiegabile, che sta davanti ai suoi occhi come a quelli di un bambino impotente, diventa comprensibile se la si considera in ordine ad una rinnovantesi generazione che sboccia alla vita.
Qualche tempo fa, prima di Pasqua, ebbi occasione di andare nella Baviera.
Non appena superati i paesaggi alpini così imponenti, ma nei particolari altrettanto graziosi, con le case e i prati arroccati sui pendii scoscesi, mi trovai quasi improvvisamente immerso nella ‘landschaft’ di una terra che pareva senza confini, maestosa e pacata, ordinata, ma non artefatta, dove, paradossalmente parlando, non si vede una persona che lavori, piuttosto invece il lavoro già completamente e perfettamente eseguito, che sembrava rendere con evidenza il carattere della gente del luogo, concreta e fedele, fino alle estreme conseguenze. In questo contesto severo e composto, mi ritrovai in chiesa a sentire un canto, una preghiera, quasi un colloquio ritmato che ribadiva e spiegava la grande rivelazione del vangelo: “Se il chicco di grano non muore rimane solo, ma se muore porta gran frutto” (Gv. 12, 20-25).
Tradotta dice pressappoco così:
‘Gli uomini sono in obbligo di morire l’uno per l’altro,
il chicco di grano è destinato a farsi pane,
noi possiamo diventare nutrimento l’uno per l’altro,
Dio stesso ha percorso il medesimo cammino
ed è per questo diventato vita per ciascuno di noi’.
(Gotteslob, Ludvig Auer editore. Canto N° 183).
Essa esprime la constatazione ricca di speranza che ogni morte porta la resurrezione, ogni minimo sacrificio dona la gioia di un amore più grande ed ogni fatica anche la più piccola, la sola che ci viene richiesta in quell’unico istante che abbiamo a disposizione, è foriera di quella vita che rallegra l’intero universo.

Allora lei non pensa che certe situazioni possano essere senza scampo?

Come l’amore non è mai abbastanza, così il dolore è sempre troppo, certe disgrazie quindi non si possono bagattellizzare.
Tuttavia le persone che ne sono colpite, generalmente, dopo un periodo di lutto e di dolore indicibile, trovano il modo per affrontarle e superarle, almeno quanto quelli che ne sono esenti non riescono ad evitare il terrore che esse incutono.
Addirittura si può dire che chi non riesce a sopportare simili eventi probabilmente soffre di uno psichismo ai limiti della norma.
Si rimane poi sorpresi nel considerare quanto siano maggiormente destabilizzanti gli attacchi di panico per coloro che soffrono di alcune fobie, che non gli stessi disastri naturali per le persone normali.
In parole povere: un piccolo ragno può risultare per qualcuno ben più catastrofico di qualsiasi catastrofe.
Comunque tutte queste situazioni possono persino essere motivo di gioia e far splendere un sorriso tra le lacrime, se ci fanno sperimentare il conforto dell’aiuto vicendevole e del proprio coraggio.

Allora non ci resta che rassegnarci? Non possiamo dunque fare qualcosa in queste situazioni?

Il bambino davanti alla scena primaria non è solamente un soggetto passivo, ma anche attivo.
La sua angoscia può esser vista come una ammissione inconscia di impotenza, ma è anche la confessione del desiderio di esercitare, come il padre, la sua potenza nei riguardi della madre, anche in forma di una violenza aggressiva.
Se egli in un precedente stadio della sua crescita si era trovato verso di lei come davanti ad una ‘madre buona’, oppure ’cattiva’, ora può in un certo modo confermare i propri giudizi inconsci e quindi i suoi comportamenti carichi di pulsioni di morte e di vita, di aggressione e di protezione.
Considerando poi l’uomo nei riguardi della madre natura, lo vediamo, in un modo analogo, alle volte intento a conservarla, altre invece a distruggerla, quasi volesse esercitare un diritto indipendentemente da chi gliela ha data in possesso, non certo in proprietà.
E’ soprattutto questo secondo aspetto che lo mette in uno stato di ansia e di insicurezza.
Quindi non tanto l’assistere alla violenza paterna, quanto la sua esperienza, anche se alle volte inconscia, di essere stato aggressivo è il motivo di quei sentimenti di colpa che lo mettono in uno stato di angoscia, come chi ha esercitato una competitività ingiusta contro lo stesso padre.
Per questo egli si sente in qualche modo la causa delle catastrofi naturali e le vede da una parte come espressione di una potenza a lui superiore e dall’altra come un castigo che egli si è meritato.

Ma è proprio vero che gli uomini si sentono in colpa davanti alle catastrofi?

Effettivamente non è sempre così, questo capita più facilmente quando si sentono solidali, sia i fortunati, che i colpiti dalla sciagura.
Se invece essi si dividono, allora formano ben presto due partiti: quello dei giusti, che sono gli scampati, e quello dei colpevoli, che sono gli altri. Una volta poi, erano proprio i colpiti ad essersi meritato il castigo, oggi invece si tende più facilmente ad accusare le autorità che non hanno saputo prevenire il disastro, per esempio per non aver dato opportune disposizioni per la costruzione di case con criteri antisismici, oppure, in caso di alluvioni, di non essersi preoccupate a sufficienza dell’assetto territoriale o anche, solamente, di non essere state tempestive nei soccorsi.
Insomma qualcuno la colpa deve sempre averla.

Come ovviare a questo senso di colpa?

La risposta può essere anche tanto semplice.
Per non avere il senso di colpa basta non avere la colpa. In parole povere, l’uomo deve rimettere nelle mani del Padre quello che gli appartiene, in pratica se stesso e tutto il creato.
Si tratta in fondo di restituire la propria fiducia a Dio, aderendo ai suoi programmi di vita, senza usurpare il suo governo.
Questa fede si esprime in una specie di rinascita e di restaurazione di se stessi e del creato nell’ordine del creatore, quasi una presa di coscienza di tutte le pulsioni di vita di cui è dotato, al di là di quelle di morte e di auto distruzione.

Ma un simile comportamento si giustifica solo con la prospettiva di una vita dopo la morte! Non è forse questo un atteggiamento troppo remissivo per chi deve dibattersi tutti i giorni su questa terra?

Il vangelo ci propone dei codici di comportamento validi per un uomo considerato nella sua più alta realizzazione, prima e dopo la sua nascita al cielo, che vive la vita immerso nell’intero universo e in unità con esso.
Non esiste un uomo diviso da se stesso e dall’ambiente che lo circonda.
Quello che Gesù ci propone quando dice: “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore…” si riferisce ad una esistenza che dura per sempre, non cimiteriale o comunque differita.
Prendiamo in esame la mitezza.
Chesterton racconta che p. Brown, il personaggio dei suoi romanzi polizieschi, possedeva la rara dote di mettere a loro agio le persone con le quali aveva a che fare e, che per questo, poteva ottenere da esse più facilmente quelle informazioni, che gli erano necessarie per dipanare le sue inchieste giudiziarie.
La ragione di tutto questo sta nel fatto che egli aveva una carattere benevolo e le persone miti sono le più adatte ad indagare; esse riescono ad avere maggior successo nello scoprire i misteri, dove questi si celano.
Senza questa virtù nessun uomo diventa un poliziotto della natura, nessun studioso arriva ad essere uno scienziato; si troverà sempre davanti ad una terra senza fiori che si rifiuta di donargli i suoi frutti, perché essa si chiude a chi è violento, imprigionandolo in un groviglio di spine.
Nessun scienziato è mai stato un generale, perché i generali hanno studiato una sola scienza: quella di far danni ed ammazzar la gente.
Mentre chi è mite abita una terra che diventa per lui la casa amica che lo ospita e lo accoglie. (Mt. 5, 5).

E per l’umiltà di cuore?

… Che si concretizza nella povertà e nel servizio.
Nei regni di questo mondo c’è un certo ordine gerarchico, dove generalmente i primi, quelli che contano, sono più facilmente quelli che dispongono di molte ricchezze. Essi vengono preferiti non tanto per quel che sono, ma per quel che hanno; infatti i loro simili vorrebbero, quasi per istinto, impossessarsi più dei loro beni che non di quelle capacità che essi sanno usare per procurarseli.
C’è un altro regno, un’altra organizzazione, che ha un suo ordine che gli è proprio, dove tutti valgono per quel che sono e non per quel che hanno (Mt. 5, 5).
E’ quello che ha proposto Gesù dove non ci sono preferenze, ma dove regna l’amore scambievole, povero di pretese e ricco di possibilità, dove tutti sono fratelli e dove Dio che vive tra loro ha lavato i loro piedi nell’ultima cena, prima di morire. (Gv. 13, 1-17).

Mi pare che ce ne sia abbastanza per tirare una conclusione, che potrebbe essere anche questa: sembra proprio che non abbiamo alcun scampo, volenti o nolenti dobbiamo comunque scegliere un comportamento di vita superdotato di felicità!

E dove per aver patito uno, riceveremo in cambio cento gioie, fin da questa terra, fin da questo momento. (Mc. 10, 28-31).

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