venerdì 3 dicembre 2010

I rapporti tra le ‹distinzioni›



L’ordine non è causato e non costituisce un fine, ma è programmato dall’essere, mentre a sua volta è la disposizione dell’esistere.
L’esistere non è programmato, ma causato dall’essere e di per sé costituisce un fine riconosciuto dall’ordine.
A sua volta l’ordine non è causa dell’esistere ma disegno e, nello stesso tempo, ambiente-atmosfera per l’essere.
L’esistere, poi, non è causa efficiente, ma finale dell’essere e intelligenza dell’ordine, ovverosia è conoscenza dell’essere e coscienza dell’ordine.
In pratica, l’essere è ordinato all’esistere e l’esistere dà all’essere la possibilità di effettuarsi; questo nell’ordine la cui manifestazione più materiale consiste nel tempo e nello spazio.

sabato 27 novembre 2010

Una gnoseologia spiegata dalla bibbia



La prima icona che spiega il processo cognitivo è il racconto della creazione della donna.
Adamo cerca un aiuto e non lo trova nelle realtà dell’universo, ma in un se stesso diverso da sé che è Eva, ovverosia in un altro uomo: nella donna.
Si tratta di un evento con tutte le caratteristiche della idealità. Mentre la conoscenza delle realtà del mondo pur sensibile era insoddisfacente, la conoscenza di se stesso nell’altro uomo ha un significato, con una prima valutazione, concettuale, perché consiste in un aiuto. 
Questo significato non è l’unico, infatti, l’uomo non vede in lei solamente la convenienza di essere aiutato che non aveva trovato altrimenti, ma anche un altro sé e, nello stesso tempo, un dono di Dio. Adamo, pur incosciente nel sonno riceve un quasi se stesso, degno di sé senza cercarlo e senza pagarlo. Si tratta di un dono, di un aiuto, di un se stesso, di un non altri e non altrimenti: in una parola si tratta di un bene e di una conoscenza ideale e quindi dell’idea di uomo. 
È la prima idea che l’uomo conosce insieme a quella di Dio e, in questo modo, conosce anche quella dell’universo che lo circonda, che è un quasi-aiuto-cercato, ma che non lo è del tutto, perché non è come quello che ha trovato invece in Eva.
La seconda icona spiega la conoscenza solo indirettamente presentando di per sé una ‹non-conoscenza›, che è anche una incoscienza. Si tratta di una conoscenza della realtà non ideale, provocata dall’‹astuzia› di una convenienza, non dalla ricezione obiettiva di un dono. È la conoscenza di chi indaga, ma non ama, di chi dubita ma non ha fiducia: di per sé più dubbio che non conoscenza, ovverosia consiste nel riconosere in sé la certezza di non saper amare e quindi l’avvertenza di non poter conoscere. 
Si tratta della conoscenza di una mancanza, ovverosia del male. E Adamo che non si fida perde un amico che è Dio stesso, non perde l’amicizia di Dio, ma perde sé come suo amico. Per questa ragione non può più parlare con lui senza il bisogno di sussidi, che trova nei vestiti, per non essere nudo e provare vergogna della sua mancanza. In questo modo ha perso una realtà ideale e una conoscenza delle idee. Tra lui e la realtà c’è un divario: un vestito che la copre e che permette per un verso di vederla, ma che per un altro verso riesce a nasconderla. È la conoscenza sulla base di un ordine scelto ad arte – non un ordine, ma una convenzione – ma non accolto del tutto nell’‹amicizia-conoscenza-coscienza› spontanea delle virtù.
La terza icona-realtà è quella della Madonna che all’annuncio dell’angelo afferma di non conoscere uomo. Non si tratta di una bugia, ma della confessione di una realtà. Maria conosceva Giuseppe promesso sposo, ma non era una conoscenza ideale, in un certo senso era una non-conoscenza concreta ed effettiva, mancava la chiarezza e la purezza originale del dono di Dio. Per questo Maria aveva già rifiutato una conoscenza dell’uomo non ideale, ma nello stesso tempo riceve la rivelazione di un ristabilimento ed una ricostruzione della idealità nell’uomo Gesù. 
Dio, che con il peccato di Adamo aveva perso un amico ideale, se voleva ritrovarlo ideale e amico, lo doveva ricostruire e, non trovandolo, lo ha ‹ri-creato› non più usando il fango, ma servendosi di se stesso. Si tratta della nuova creazione della realtà ideale che produce in Maria la conoscenza-riconoscenza della idealità e delle idee nella realtà di quell’altro uomo al quale lei stessa aveva dato la sua carne. 
La ricostruzione della idealità ‹uomo› e la conoscenza ideale ricostruita dell’uomo è sempre quella di un uomo perfetto, ovverosia senza confronti e senza uguali, che non cerca aiuto da alcuno, ma che è in se stesso di aiuto a tutti. È Gesù che si fa aiutante per ridare ad ogni uomo la sua stessa idealità dell’aiutare. L’uomo che ama, che aiuta concretamente ricostruisce con ‹Gesù-uomo-ideale› la nuova creazione, perché conosce e riconosce la realtà delle idee e non si ferma alla conoscenza esteriore delle apparenze sensibili ed al significato concettuale delle convenzioni e dell’utilitarismo.
Nella bibbia non ci sono solamente immagini che spiegano, ma realtà concrete di Dio, anche se, per essere comprensibili, si possono considerare come icone visibili. Come la conoscenza della realtà ideale è impossibile senza le virtù, una lettura della bibbia –sempre senza le virtù – non spiega a sufficienza, perché è stata scritta per illustrare le idealità e una conoscenza eidetica senza l’aiuto delle virtù è impossibile.
I rapporti tra le ‹distinzioni›
L’ordine non è causato e non costituisce un fine, ma è programmato dall’essere, mentre a sua volta è la disposizione dell’esistere.
L’esistere non è programmato, ma causato dall’essere e di per sé costituisce un fine riconosciuto dall’ordine.
A sua volta l’ordine non è causa dell’esistere ma disegno e, nello stesso tempo, ambiente-atmosfera per l’essere.
L’esistere, poi, non è causa efficiente, ma finale dell’essere e intelligenza dell’ordine, ovverosia è conoscenza dell’essere e coscienza dell’ordine.
In pratica, l’essere è ordinato all’esistere e l’esistere dà all’essere la possibilità di effettuarsi; questo nell’ordine la cui manifestazione più materiale consiste nel tempo e nello spazio.

venerdì 12 novembre 2010

Confessione filosofica

Nel riordinare i miei blog, mi è parso necessario mettere giù in due parole le ragioni che mi hanno mosso a pubblicarli. 
Lo faccio ora con: 
a) una specie di confessione o manifesto o confessione filosofica.
b) una intervista come riassunto e come indicazione pratica di questa filosofia,
c) una testimonianza che è un esempio di applicazione.

a) confessione filosofica
1. Qualsiasi filosofia che non spiega il ‹fenomeno morte› (il fenomeno che va sotto il nome di morte) è in se stessa meno filosofia e più ignoranza , almeno, meno ragionevole; ora l'unica filosofia che spiega la morte è quella di Gesù di Nazaret.
La sua spiegazione è semplice e si potrebbe esprimere in due proposizioni:
_ l'uomo che muore vede Dio così come è
_ L'uomo che muore conosce se stesso come Dio lo vede dall'eternità e come Dio stesso ha supplito ai suoi deficit e alle sue mancanze.
In questo senso la morte è un atto di assertività da parte dell'uomo e una continuata promulgazione di vita da parte di Dio.
Nel contesto di questa filosofia possono nascere tante domande e altrettante risposte che fungono da spiegazioni aggiunte formulate da molti pensatori, anche se non sono essenziali e, alle volte, persino discutibili. 
Una di queste aggiunte raggruppa tutte quelle considerazioni sullo sviluppo della razionalità umana, come quelle fondamentali di Piaget, una volta completate da quelle altre considerazioni che riguardano l'affettività dell'uomo, specialmente così necessaria nei momenti critici del passaggio da uno stadio razionale a quello successivo dello sviluppo umano.
Nel contesto della volontà affettiva dell'uomo, lo studio delle e della virtù occupa un ruolo d'importanza evidente, che insieme alla considerazione delle proprietà della natura umana presentano il presupposto (precognizione) della stessa capacità razionale dell'uomo e, quindi, di ogni filosofia.
In questo senso, per capire il fenomeno morte è necessaria l'intera vita vissuta, cioè lo sviluppo completo della razionalità umana, l'esercizio continuo delle virù e la realizzazione delle possibilità naturali. Una mancanza di sviluppo razionale nelle età prima di aver raggiunto il suo compimento è compensata da un contributo aggiunto e indispensabile delle virtù affettive. In pratica, ogni bambino, ogni giovane e ogni adulto crede ama e spera di raggiungere quella perfezione naturale e razionale che gli farà comprendere tutto il suo modo di vivere e che lo renderà disponibile e ricettivo alla comprensione della sua vita post mortem (il dopo-morte) che diventerà sperimentale solamente nel tempo dell'eternità.
In ogni caso se si rinuncia ad una spiegazione della morte non si può pretendere d'essere maestri, ma ci si deve accontentare di esserne ignoranti. Questo non vuol dire come invece sia sempre possibile continuare ad essere e a divenire eroi, santi e martiri. In altre parole, un uomo ignorante, ma santo è più uomo di un altro che crede di sapere tutto sulla morte, senza mai tendere a una maggiore perfezione. Il termine santo equivale a quello di ‹divino›, cioè di partecipe della spiegazione della morte, quando egli la vivrà in eterno dopo decesso fisico, partecipando alla Causa, vedendo la Ragione, con-sentendo alla Consolazione, della sua esistenza.
Rimarcando a corollario quanto detto, chi non vuole spiegarsi la morte, muore anche nel quotidiano e rinuncia a ogni progresso razionale, chi invece studia il fenomeno morte, può persino essere incolpato di credere a delle illusioni, ma non può essere incolpato di credere a una vita senza motivi e senza spiegazioni che sia peggiore di una continua morte.
Ci sono uomini che lavorano per costruire una società migliore, che se è mortale è anche inutile, tuttavia proprio costoro testimoniano di fare quello che non riescono a spiegare.

b) una intervista 
Come spiegare tutto questo a chi non accetta spiegazioni?
Semplicemente facendogli notare le ragioni del suo vivere, in pratica, il suo stesso vivere è una spiegazione: basta chiedergli
- Perché vivi? Per mangiare per bere e poi morire?
- No! Io vivo per mia moglie, i miei figli e per un futuro migliore.
- Ma tu credi che questo sia possibile?
- Certamente, io credo a tutto questo!
- Ma quale prova mi dai della tua fede?
- Te la posso dare perché io amo la vita.
- Allora è l'amore la prova della vita e della ragione; ebbene, ci può essere un amore meno amante?
- No!
- Ma, allora, l'amore che non muore perché è sempre e perfettamente amante, è il Dio che ti ama per l'eternità.

c) una testimonianza 
Noi abbiamo bisogno di gente che ragiona perché ama e di gente che ama perché ragiona, al punto di preferire quasi un santo al posto di un filosofo.
Io amo moltissimo i santi e, tra questi, ‹San› Palmiro Togliatti che è morto per aver diffuso e praticato una lotta che fosse più dolce di quella messa in atto, per esempio, in Cambogia o in Vietnam, anche se non posso asserire che chi è invischiato in lotte e in guerre, al posto d'essere spietato e crudele, sia quella persona gentile che ama sempre e che non odia mai, tanto da meritarsi il titolo di santo in continuità.

NB. Questa ‹confessione› mi sembrava così importante che l'ho copiata tale quale su tutti i miei blog, perfino su uno che io scrivo in lingua tedesca, purtroppo non tradotto, sperando che qualcuno sappia anche l'italiano meglio di quanto io so il tedesco. 

mercoledì 3 novembre 2010

Aggiunte al post. Riflessioni filosofiche su ‹la risurrezione›


Vedi sotto in questo blog

il MARTEDÌ 30 MARZO 2010

Riflessioni filosofiche su ‹la risurrezione› (Etica)

Questo scritto è un estratto da un libro 
che ho intenzione di pubblicare,
almeno nei miei blog.


Un medico non può adottare la scusa che è medico per non 
prendere una posizione davanti all’annuncio della resurrezione di Gesù; mentre egli assiste ogni giorno la vita in uno stato di precarietà, con questo evento, essa gli viene presentata nel massimo del suo dispiegarsi. Certamente ai tempi di Gesù nessuno è andato a sentire con lo stetoscopio o a vedere con l’elettrocardiogramma se il suo cuore avesse ripreso i battiti normali. Ma se egli stesso aveva mangiato con gli apostoli e detto a Tommaso di toccare le ferite riportate sulla croce, il suo ritorno alla vita non avrebbe bisogno di altri attestati.
Quale sarà quindi il giudizio di un medico?
Anche qui, come quello di quel contadino di cui ho già parlato a proposito dell’epilettico del vangelo che non aveva mai letto libri di terapia.
Eppure non proprio del tutto come lui. Infatti, almeno il contadino ha un certo presentimento di una vita che può durare oltre la morte, infatti, tutti i popoli della terra hanno onorato i morti, non solo nel ricordo della loro vita passata, ma anche nella speranza di una futura. Un uomo di studio, invece, molte volte ha una certa riluttanza a basarsi su credenze popolari e quindi gli manca questa base intuitiva. Eppure ha frequentato il liceo, ha studiato un po’ di filosofia, non è del tutto privo di qualche prova ragionevole, per quanto discussa, che gli fa ammettere la possibilità di una vita post mortem.
Ha più argomenti lui o la persona che non ha studiato?
Il mondo colto ebraico dei tempi di Gesù si divideva tra coloro che credevano nella risurrezione dei morti e chi la negava. Il mondo di oggi non è dissimile da quello di allora, alcuni si dicono certi di essa, altri la credono una superstizione.
Cosa apporta di nuovo alla nostra considerazione su questo argomento l’annuncio degli apostoli e la predicazione della chiesa?
Almeno altri due elementi.
Il primo che la resurrezione di Gesù è avvenuta con il corpo, anche se un corpo glorioso che poteva passare tra le porte chiuse del cenacolo.
Il secondo che si trattava di una testimonianza. Gli apostoli si dichiaravano testimoni di un fatto fisico che non poggiava quindi sui ragionamenti dei filosofi o sulle intuizioni della gente comune, ma sulla realtà di una esperienza.
Ma un ancora un terzo elemento veniva presentato con la loro predicazione. Essi dicevano: “Quel Gesù che avete ucciso appendendolo sulla croce...”. Il loro annuncio diventava così, nello stesso tempo, un atto di accusa per i farisei. Loro, che avevano ucciso Gesù, si trovavano nella necessità di difendersi, contrastando queste asserzioni e questi assertori; anche noi, qualche volta, ci troviamo nella loro posizione, siamo incolpati in un certo senso di atteggiamenti per qualche motivo simili ai loro.

Omissis

Rileggendo questi appunti così modesti a proposito di un evento così importante, sono ritornato, particolarmente nel corso di quest’anno, a cercare non solo delle testimonianze ma se possibile anche delle prove razionali a proposito.
Una prova in questo senso riguarda tutto il problema metafisico, ovverosia non solo la vita eterna, ma ancor prima e sopratutto l’esistenza di Dio. Ebbene a questo proposito ogni uomo si costruisce le sue convinzioni fin che vive e nemmeno io mi stupisco di avere quelle mie che, magari sono diverse da quelle altrui.
Ebbene, almeno provvisoriamente e dal mio punto di vista, la prova razionale dell’esistenza di Dio consiste nel fatto che nessun filosofo abbia mai negata codesta esistenza. Questa affermazione può risultare sorprendente per un professore di filosofia, che sa benissimo che ci sono molti filosofi atei, ma io penso che al giorno d’oggi ogni uomo sorride divertito se fosse richiesto di credere agli Dei pagani com’erano Giove, Saturno, Mercurio o a tanti altri consimili, ma nessuno mette in dubbio che ogni uomo, al posto di sorridere, crede a chi comanda e crede a chi ha autorità, come se fosse un dio perché egli riconosce questo dio e non lo ha mai messo in dubbio per paura di finir male i suoi giorni e, magari di essere da lui eliminato fisicamente. Anche i filosofi più atei hanno ammesso che per non cadere nel caos, ci debba essere un re o una sorta di padreterno che castiga le teste matte e nessuno di loro lo ha mai messo in dubbio. Qualsiasi persona in pratica crede con una fede cieca nel nostro mondo, che si traduce nella prassi quotidiana a quella stessa fede che non si permette mai di mettere in dubbio, per esempio, la validità delle leggi stradali, così come nessun bambino mette in dubbio le parole della madre. Il fatto è che, non so per quale assurdo equivoco, si è venuta confondendo la virtù della fede nei comandi della mamma e in quelli della polizia con quell’altra fede nei comandi di chi regge il mondo intero e, tutto questo, anche se nessun uomo non voglia mai tentare di essere un ‹non uomo› per fare una supposta volontà propria al posto di obbedire all’ordine delle leggi naturali e alle promulgazioni delle leggi sociali. Se si vedono fedi diverse si possono vedere anche degli dei diversi, ma proprio per questo si ammettono gli dei e si approvano e si obbediscono, ovverosia si riconoscono degni di fede, almeno quanto basta per non mettere in dubbio la fede in quell’uomo che è ogni ateo quando in pratica afferma nella sua vita quotidiana che all’infuori di lui non c’è un altro dio.
Tutto questo argomento merita una trattazione diversa e più approfondita, tuttavia nei limiti di queste pagine basta riconoscere che ogni età razionale ha i suoi dei e ogni persona che ragiona rinuncia a questo o a quel dio, per essere libero di scegliere, meditare e onorare l’unico dio che egli conosce, anche se talvolta, malauguratamente, è solamente la propria persona deificata fino all’esasperazione.
Dopo queste premesse, non si può quindi nemmeno evitare di chiederci razionalmente in che cosa consiste la risurrezione.

Una domanda del genere è ammissibile... (vedi articolo del 30 mar.)

Alla domanda, quindi, in che cosa consiste la nostra resurrezione, si può rispondere molto semplicemente che consisterà nel continuare a vivere quella vita di tralci sempre, e sempre meglio, uniti all’unica vite che è Gesù stesso. In questo senso continuerà a morire quella pseudo-vita che è la nostra esistenza attaccata alle nullità del momento che potrà, invece, essere finalmente libera di affermarsi e realizzarsi in modo completo nell’unità con Dio per partecipazione. In altre parole se la vita è un bene e la morte è un male, ovverosia una mancanza di bene, deve morire questa morte e questa mancanza, per poterci automaticamente trovare nella possibilità concreta della pienezza dell’unica vita che non muore, almeno per quel poco che l’abbiamo già assunta, ma ben di più per quel tanto che riempirà il nostro vuoto, una volta che ci siamo accorti in che baratro esso consisteva di fatto prima della morte fisica. La risurrezione rappresenta una continuata riconferma dell’amore di Dio che tra tutti i suoi doni non ha tralasciato di farci il più grande che è quello della ‹remissione dei peccati›, che consiste nel trarre un bene perfino dal male o, in altre parole nel ri-creare un esistere perfino dove mancava. Respingere il suo dono significa privarsi della vita, ovverosia morire; in altre parole, respingere la partecipazione alla vita di Dio significa piombare nel nulla assoluto e nella dimenticanza eterna. Il male, infatti, è mancanza di bene e la nullità assoluta è la mancanza del Sommo Bene, che per l’uomo equivale a una mancanza di partecipazione di creatura con il suo creatore. In questo modo, possiamo comprendere in parte, e capiremo poi del tutto, il vero ‹Essere› (con l’iniziale maiuscola), perché il nostro stesso ‹esistere› unito a quello del Signore può diventare continuamente è sarà per sempre l’eterna risposta adeguata che spiega in che cosa consiste la vera vita.

Da tutte queste riflessioni appare evidente che il vero problema non consiste in cosa o come sia la risurrezione, ma nel realizzare la vita del Signore attimo dopo attimo per partecipazione, ovvero essere altri tranci della vite o, con un’altra dizione, essere ‹altri-Cristo›. Non si tratta di un problema teorico, ma molto pratico. Come s’impara a guidare un’automobile sedendosi al volante, così s’impara a essere ‹altri-Cristo› cominciando a esserlo, per esempio, prima di una pur piccola azione o decisione chiedersi di proposito: “Cosa avrebbe fatto Gesù al mio posto?”, per trarne le conseguenze. Senza esperienza non c’è ragione e senza uno scopo non s’inizia una esperienza, in questo senso qualsiasi rinuncia alla risurrezione consiste nell’aver fede nella morte, senza provare mai una volta a risorgere dopo una piccola morte che inesorabilmente incombe sempre in ogni attimo della nostra esistenza.

Ebbene, se questa è la posizione teorica per affrontare il problema della risurrezione, dal punto di vista pratico ce n’è un altra molto più semplice che è quella non tanto di risorgere, ma di morire, perché la risurrezione viene poi da sé, tanto più che, mentre per risorgere dobbiamo anche volerlo e non solo accettarlo, invece per morire dobbiamo accettarlo senza nemmeno volerlo.
Cosa significa un discorso del genere?
Semplicemente che dobbiamo subito superare gli stadi del nostro sviluppo fisico e intellettuale insieme ad un deciso esercizio della nostra vita spirituale – che non ha bisogno di nessun progresso, ma solamente di un continuo adempimento – per vivere sempre più e sempre più intensamente.
Noi ci siamo soffermati più volte in occasione di altri scritti su questo argomento; qui basta ricordare che dopo lo stadio della razionalità figurativa del bambino per poter entrare in quella concettuale del fanciullo, è necessario patire la morte della immaginazione fabulistica, così come dopo la fanciullezza è solamente per via della de-erotizzazione che si accede al mondo degli Ideali e, per finire, dobbiamo preparaci alla morte più definitiva con la de-possessione e con il disfacimento persino fisico delle nostre possibilità, per acquisire una visione della vita, liberata dal temporale e dal locale. Una persona anziana che perde necessariamente ogni cosa, nell’accettare questa esperienza compie un diuturno esercizio di de-possessione per arrivare senza terra ad abitare nel regno dei cieli. De-fabulismo, de-erotizzazione e de-possessione sono le occasioni semplici e evidenti per preparaci alla risurrezione e il loro superamento è la miglior prova di una continua rinascita e dell’esistenza della vita eterna. 
Meditando questi argomenti non ci si ferma a far questioni e non si perde tempo inutilmente, anzi si patiscono di meno le pene necessarie che alle volte sembrano insormontabili. Un mio collega era convinto che l’eutanasia sia la morte più dolce e più desiderabile, ebbene può darsi che sia vero, almeno per lui, ma è anche la più irresponsabile e la più irrazionale possibile. Lo si capisce meglio rileggendo la parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone. Il vangelo non descrive il loro decesso che rimane un mistero personale e privato, ma ne riporta le conseguenze: Lazzaro si trova in cielo con gli angeli e i santi, in un mondo amico, tra amici, sotto lo sguardo di un Padre, l’epulone si trova invece solo, in mezzo ai nemici, senza libertà e senza commiserazione: la sua richiesta di aiuto aumenta invece le sue delusioni e le sue pene. 
La miglior prova della risurrezione sta nella costruzione della famiglia umana e la miglior prova della morte continua, sta in ogni lite e in ogni contesa che, cominciate, non finiscono mai. Chi gode dei danni e del male che fa è già morto, chi gode del bene che fa è già sulla strada di una continua risurrezione.

sabato 30 ottobre 2010

Una gnoseologia spiegata dalla bibbia



La prima icona che spiega il processo cognitivo è il racconto della creazione della donna.
Adamo cerca un aiuto e non lo trova nelle realtà dell’universo, ma in un se stesso diverso da sé che è Eva, ovverosia in un altro uomo: nella donna.
Si tratta di un evento con tutte le caratteristiche della idealità. Mentre la conoscenza delle realtà del mondo pur sensibile era insoddisfacente, la conoscenza di se stesso nell’altro uomo ha un significato, con una prima valutazione, concettuale, perché consiste in un aiuto. Questo significato non è l’unico, infatti, l’uomo non vede in lei solamente la convenienza di essere aiutato che non aveva trovato altrimenti, ma anche un altro sé e, nello stesso tempo, un dono di Dio. Adamo, pur incosciente nel sonno riceve un quasi se stesso, degno di sé senza cercarlo e senza pagarlo. Si tratta di un dono, di un aiuto, di un se stesso, di un non altri e non altrimenti: in una parola si tratta di un bene e di una conoscenza ideale e quindi dell’idea di uomo. È la prima idea che l’uomo conosce insieme a quella di Dio e, in questo modo, conosce anche quella dell’universo che lo circonda, che è un quasi-aiuto-cercato, ma che non lo è del tutto, perché non è come quello che ha trovato invece in Eva.
La seconda icona non spiega la conoscenza solo indirettamente presentando di per sé una ‹non-conoscenza›, che è anche una incoscienza. Si tratta di una conoscenza della realtà non ideale, provocata dall’‹astuzia› di una convenienza, non dalla ricezione obiettiva di un dono. È la conoscenza di chi indaga, ma non ama, di chi dubita ma non ha fiducia: di per sé più dubbio che non conoscenza, ovverosia consiste nel riconosere in sé la certezza di non saper amare e quindi l’avvertenza di non poter conoscere. Si tratta della conoscenza di una mancanza, ovverosia del male. E Adamo che non si fida perde un amico che è Dio stesso, non perde l’amicizia di Dio, ma perde sé come suo amico. Per questa ragione non può più parlare con lui senza il bisogno di sussidi, che trova nei vestiti, per non essere nudo e provare vergogna della sua mancanza. In questo modo ha perso una realtà ideale e una conoscenza delle idee. Tra lui e la realtà c’è un divario: un vestito che la copre e che permette per un verso di vederla, ma che per un altro verso riesce a nasconderla. È la conoscenza sulla base di un ordine scelto ad arte – non un ordine, ma una convenzione – ma non accolto del tutto nell’‹amicizia-conoscenza-coscienza› spontanea delle virtù.
La terza icona-realtà è quella della Madonna che all’annuncio dell’angelo afferma di non conoscere uomo. Non si tratta di una bugia, ma della confessione di una realtà. Maria conosceva Giuseppe promesso sposo, ma non era una conoscenza ideale, in un certo senso era una non-conoscenza concreta ed effettiva, mancava la chiarezza e la purezza originale del dono di Dio. Per questo Maria aveva già rifiutato una conoscenza dell’uomo non ideale, ma nello stesso tempo riceve la rivelazione di un ristabilimento ed una ricostruzione della idealità nell’uomo Gesù. Dio, che con il peccato di Adamo aveva perso un amico ideale, per ritrovarlo ideale e amico, lo doveva ricostruire e, non trovandolo, lo ha ‹ri-creato› non più usando il fango, ma servendosi di se stesso. Si tratta della nuova creazione della realtà ideale che produce in Maria la conoscenza-riconoscenza della idealità e delle idee nella realtà di quell’altro uomo al quale lei stessa aveva dato la sua carne. La ricostruzione della idealità ‹uomo› e la conoscenza ideale ricostruita dell’uomo è sempre quella di un uomo perfetto, ovverosia senza confronti e senza uguali, che non cerca aiuto da alcuno, ma che è in se stesso di aiuto a tutti. È Gesù che si fa aiutante per ridare ad ogni uomo la sua stessa idealità dell’aiutare. L’uomo che ama, che aiuta concretamente ricostruisce con ‹Gesù-uomo-ideale› la nuova creazione, perché conosce e riconosce la realtà delle idee e non si ferma alla conoscenza esteriore delle apparenze sensibili ed al significato concettuale delle convenzioni e dell’utilitarismo.
Nella bibbia non ci sono solamente immagini che spiegano, ma realtà concrete di Dio, anche se, per essere comprensibili, si possono considerare come icone visibili. Come la conoscenza della realtà ideale è impossibile senza le virtù, una lettura della bibbia –sempre senza le virtù – non spiega a sufficienza, perché è stata scritta per illustrare le idealità e una conoscenza eidetica senza l’aiuto delle virtù è impossibile.

giovedì 21 ottobre 2010

Il Dio di Aristotele

Appunti su un testo di Hirschberger


La lettura dell’esposizione di  Aristotele sul testo di Hirschberger (Geschichte der Philosophie) è stata l’occasione per riflettere sulla metafisica e in particolare su Dio. Ho cercato di scrivere quei pensieri che mi parevano importanti e, alla fine mi sono accorto di averne tralasciati più del necessario. Alcuni li ho raccolti qui per non dimenticarli.


Particolare-universale
Che rapporto – o che differenza – c’è tra particolare e universale?
C’è un modo di considerare il particolare come appartenente ad un universale e un altro di vederlo opposto all’universale.
La diversità delle due considerazioni è enorme. L’‹appartenente› rappresenta un ordine, mentre l’‹opposto› significa disordine, o meglio un impedimento all’ordine. Ovviamente il particolare non è universale, ma se partecipa si distingue nell’unità; se si oppone si divide nella nullità.


Pienezza-definizione
Anche il particolare può essere completo nella sua pienezza, ovverosia perfetto. È una perfezione diversa da quella dell’universale, ma che illustra specifica e spiega lo stesso universale in una precisazione che non è definizione – la precisazione distingue e mette in luce le diverse intensità, la definizione limita e rileva i contrasti di luce.
Ciò che è perfetto non è compiuto nel senso che è immobile, ma continua ad essere scelto nei particolari così come è preferito nella sua integrità. Questo è possibile perché ‹preferito› e ‹scelto› indicano un ordine ed una volontà che sono proprie di uno spirito che unisce i particolari all’universale.


Aseità di Dio
Il termine aseità indica una sostanza o un essere che per esistere non dipende e non ha bisogno di qualcos’altro diverso da sè. Questa caratteristica è propria di Dio che, a detta di Aristotile, non ha bisogno di un corpo perché la sua esistenza non dipende dalla materia e ancora non ha bisogno di tenpo e di spazio. 
Effettivamente a Dio non ‹manca› nulla. Ma proprio per questo, in un certo senso, non manca nemmeno di un corpo e, sempre in un certo senso, non manca nemmeno di materia, semmai è una materia e un corpo che sono suoi propri, mentre quelli dell’uomo sono mancanti e abbisognano sempre di una pienezza che non è autonoma. Quando invece la perfezione è anche pienezza di partecipazione allora diventa partecipata e si fa corpo e materia che non sono divisione ma per l’appunto partecipazione e, in questo senso, sono perfino proprietà di Dio. La stessa cosa vale per la mancanza di spazialità e la temporalità, tanto più che lo spazio e il tempo non sono materiali, ma sono una misura di ciò che è materiale.


Caso o causa dell’evoluzione
Una riflessione di Aristotile sembra scritta da un filosofo moderno: quello che è accaduto fortuitamente è diventato necessario e quello che era un puro caso è stato considerato una causa, mentre invece è solo abituale. 
È vero che la pioggia, che è necessaria alla crescita dei cereali, non cade per il fatto che il frumento lo vuole, ma…
Ma perché cade? Perché lùmidità delle nubi con il freddo si è condensata in gocce d’acqua. Quindi c’è una causa della pioggia ed una causa diversa che risponde alle necessità del frumento. Non è occasionale la pioggia, anche se non è causata dalla necessità della crescita dei cereali. In pratica ad ogni effetto c’è una causa, il problema semmai è se tutte le cause e tutte gli effetti insieme concorrono ad una risultante unica che noi giudichiamo intelligente, mentre di per sé è anche ‹ordinata›.
In questo senso, anche quello che sopravvive perché è ‹efficiente› nell’insieme trova la sua causa nel concorso dei rapporti. In altre parole come il raffreddamento delle nubi provoca la pioggia, così il concorso di più cause provoca il perdurare di certi effetti, ed è quindi il concorso la causa di certe evoluzioni. Anche in questo caso non è messa in dubbio la causa, ma l’intelligenza del concorso delle cause. In altre parole le cause non sono intelligenti pur rimanendo esistenziali senza l’ordine del loro concorso che è invece spirituale. L’ordine non dipende dalle realtà e le realtà non dipendono dall’ordine, ma le une non esitono e non sono ordinate se non perché distinte in unità, tanto che possono esser viste le une come causa delle altre.
Il problema quindi non è se le realtà di questo mondo evolvono per caso, ma se esiste una causa generale alla evoluzione.
La risposta a questo problema non è analitica. La ragione trova delle cause per ogni effetto, ma l’indagine dell’intelligenza o della finalità del concorso delle cause non poggia su una indagine scientifico-analitica, ma su un giudizio dove non manca il concorso della volontà volente. Come un uomo ‹vuole› quel che spera di ottenere, per il solo fatto che ‹ordina› il complesso delle cause che gliene danno la possibilità al suo scopo, così ‹giudica› possibile che il mondo sia ordinato al raggiungimento di una unità dove le parti concorrono come particolarità necessarie all’insieme. Si tratta di un giudizio analogico e non solo di una indagine logica. L’analogia è il completamento della logica che permette alle conoscenze puramente razionali di diventare giudizi ‹intelligenti› o, con altre parole, teleologici.

venerdì 15 ottobre 2010

Clinamen



Con il termine di clinamen Epicuro intendeva una certa deviazione del movimento degli atomi dovuta al caso, togliendo loro quel determinismo, prospettato da Democrito, che fissava inesorabilmente la loro caduta. Gli atomi dei due filosofi erano una sorta d’intuizione e interpretazione della costruzione della realtà fisica che oggi è stata superata dalla scienza moderna. Il clinamen rappresenterebbe un primo tentativo di riconoscere una certa libertà della psiche; negata da alcuni filosofi materialisti.
Si tratta del caso, che non è mai a caso, perché anche la conoscenza per caso non conosce mai un qualcosa se non ha eliminato il caso.
Dopo essermi permesso questo gioco non solo di parole, ma anche di ragioni, vorrei esaminare quel movimento incontrollato della psiche – anche psiche è un termine vago – non ancora razionalizzato dalla conoscenza e avvertito dalla coscienza. 
Si tratta: 
1) delle inclinazioni naturali. Esse hanno la caratteristica della spontaneità e sono espressioni dell’essere dell’uomo. Si manifestano sensibilmente come istinti, concettualmente come mozioni e, infine, solo con le idee meritano la definizione di virtù. Come inclinazioni che non sono ancora virtù, non sono del tutto efficienti e per così dire sono pre-causali o come direbbe Epicuro casuali. Istinti e mozioni saranno poi, con una conoscenza più chiara ed una coscienza più pura sostituite dal riconoscimento delle virtù che di per sé sono la causa anche delle inclinazioni e delle mozioni.
2) Le inclinazioni esistenziali, analogamente a quelle naturali, prima di essere razionalizzate sono indifferenti, dipendono dalle prime percezioni che inducono alla descrizione proposizionale. Esse si presentano con aspetti diversi nel corso dello sviluppo intellettuale. In un primo tempo, come curiosità infantili,  rispondono alle esigenze di una razionalità iconica che è sempre senza precisione e quindi non conosce nemmeno quando immagina, ma che prepara gli elementi affinché la conoscenza possa scegliere e precisare. Successivamente le mozioni rappresentano la gratificazione dei concetti, che promuove e prepara una razionalità eidetica. Solo l’attenzione, lo studio e l’operare si incaricheranno di sostituire curiosità e interesse in razionalità compiuta e quindi in conoscenze del tipo di acquaintance (conoscenze di fatto e non solamente di comunicazione). 
3) Le inclinazioni dello spirito quando non sono ordinanti, sono solamente elencanti, ovverosia hanno la caratteristica di essere enumeranti un intero, per un verso rigide e per un altro verso confuse. Come le inclinazioni dell’essere non potevano prescindere da una certa potenza e quelle dell’esistere da una descrizione, così quello dello spirito non possono essere indifferenti; persino in questo stato non di coscienza, ma di inclinazione istintiva sono quasi affettive e si esprimono in una certa pre-simpatia indipendente da ogni giudizio di ordine. Tutte le inclinazioni sono positive ovverosia sono predisposizioni ad un successivo completamento delle operazioni prodotte dalle varie distinzioni che le hanno generate, ma per il fatto che sono indifferenti possono completarsi positivamente oppure al contrario negativamente. L’esempio più evidente riguarda le inclinazioni dello spirito che quasi in origine nascono o positive con la simpatia o negative con l’antipatia. Quest’ultima non solo è negativa, ma anche limitante per l’essere con le inabilità e per l’esistere con la trascuratezza. In pratica le inclinazioni formulano insieme quei cosiddetti ‹giudizi-istintivi› dei quali è pieno l’universo-uomo e che lo dispongono a potere, volere e conoscere ancora prima di poter emettere ‹giudizi-propri›. In altri scritti ho parlato di precognizione, che è una scelta consenziente di tutte le inclinazioni positive ed un rifiuto voluto delle negative, ma esiste anche un pre-potere e un pre-volere.

venerdì 24 settembre 2010

Un filosofo in due parole...

e con un po' di umorismo. 
Hume: come usare la ragione per evitare i problemi al posto di chiarirli.
Kant: come rifugiarsi nella propria ragione soggettiva.
Hegel: come avere una risposta pronta che vada bene sia per affermare sia per negare.
Fichte: come usare la ragione per voler ragionare.
Platone: come riconoscere un ideale, anche se non si dovesse raggiungere mai.
Nietzsche: come avere una ragione superiore ad ogni buona ragione.
Cartesio: come affrontare un mondo problematico senza problemi.
Macchiavelli: come ottenere in qualsiasi modo quel che non sarebbe mai permesso.
Schopenhauer: come mettere un po’ di volontà ragionata dove si avrebbe dovuto metter un po’ di ordine.
James: come trovare una ragione per tutto quello che si fa.

‹Cattiva conoscenza›

Conoscere una realtà distrattamente, senza alcun coinvolgimento e senza obbligo, equivale alla miglior dimostrazione della mancanza di qualsiasi importanza della sua esistenza o non esistenza, al punto che se ne può far a meno come se non fosse mai stata vista; al contrario rivolgersi ad essa con attenzione e con affetto impedisce che la si possa poi accantonare, perché esisterà sempre per chi l’ha conosciuta, indipendentemente da come essa si sia mostrata.
Una predisposizione positiva avvia la conoscenza alla comprensione delle realtà come ‹ideali›. Pur cominciando da una conoscenza superficiale e distratta si può arrivarne ad una che comprende gli ideali, ma se ci si ferma a metà strada, si possono comprendere solo i concetti, ma non le idee della realtà e del suo essere-esistere È il coinvolgimento che ci assicura di conoscere cose concrete e quindi idee vere. Per questo concetti e immagini possono anche essere solo delle immaginazioni che dipendono da una ‹cattiva conoscenza›, come quelle cattive azioni che dipendono da una ‹cattiva coscienza›. 
Il mondo che ci circonda o è fatto di ideali che restano, oppure di immaginazioni che si dimenticano. È vero che senza idee non ci sono ideali, ma è più vero che senza ideali non ci sono nemmeno idee vere. Di per sé non c’è una contrapposizione tra idee e ideali ma, se le une sono disgiunte dalle altre, la realtà potrebbe anche esistere, ma ‹come se› non esistesse – ‹als ob› di Kant. D’altra parte nessun uomo può vivere senza le cose che lo circondano e, per questo, uno dei possibili rimedi alla mancanza di ideali lo cerchiamo come un ripiego nel possesso delle realtà per fermarle e usarle a piacimento e questo consiste nella definitiva riduzione ai soli concetti. Dal possesso al controllo e dal controllo al dominio il passo è breve. La realtà che è necessaria diventa in questo modo condizionata da un dominio e condizionante a causa dell’uso che se ne fa. 
L’uomo è chiamato a costruire un mondo di ideali oppure è costretto a rovinare nella miseria di infinite necessità. 
È eletto per raggiungere l’Ideale degli ideali o per piombare nell’inesistenza di ciò che non ha senso e si consuma in un attimo di inesistente esistenza.

mercoledì 8 settembre 2010

Una dimostrazione completa dell’esistenza di Dio

la dimostrazione dell’esistenza di Dio non si basa solamente sulla evidenza dei suoi attributi, ma anche, e forse soprattutto, sull'analogia di questi attributi con quelli propri dell`uomo.
La dimostrazione dell’esistenza di Dio che si basa sul riconoscimento dei doni che da lui abbiamo ricevuto può sembrare incompleta e per qualcuno non del tutto inoppugnabile. Si potrebbe obiettare che quel che il singolo ha ricevuto in dono è stato negato ad un altro e che quindi il donatore sarebbe ingiusto il che equivale a negare la sua divinità.
Quel che completa e toglie ogni dubbio all’onnipotente giustizia di un Donatore-Amore sta in una analogia tra l’amore di Dio e quello che noi stessi viviamo. Se noi amiamo sempre, o almeno ci disponiamo ad essere sempre nell’amore, non per questo riusciamo a soddisfare le esigenze ingiuste, ma d’altra parte non possiamo dubitare dei nostri sentimenti perfino nei riguardi degli ‹ingiusti›, anzi, un’ulteriore riprova del nostro amore sta proprio nella premura di costruire attorno a noi un mondo di bontà che supera i particolarismi e le convenienze utilitaristiche.
In questa visuale, bisogna chiederci se l’amore di Dio può essere così sconsiderato da approvare le ingiustizie e favorire tutti senza discernimento.
Al contrario, se i doni di Dio ci inducono a costruire amicizia ed accordo, come se noi stessi fossimo un prolungamento del suo amore per i nostri simili, allora non possiamo più dubitare di un Dio che vuole amare perfino con il nostro concorso.
In effetti, come i doni che riceviamo sono un dato di fatto e non una astrazione o una deduzione da idee dogmatiche, così anche il nostro usarli per amore, completa in modo irrefutabile la creazione e la provvidenza di Dio a dimostrazione della sua esistenza. In altre parole, mentre i doni ricevuti certificano un donatore personale ma non imparziale, il dono ricevuto di essere amore a nostra volta, come egli è Amore, ci assicura dell’esistenza di un Dio non solo personale e magnanimo ma anche universale e giusto.
Dio non ci ha trattati come dei servi che partecipano alla mensa del padrone, ma come figli che partecipano della paternità del padre.
Una dimostrazione dell’esistenza di Dio che si ferma al riconoscimento dei doni ricevuti personalmente, senza essere completato con la visione di quelli che egli non limita nei riguardi di alcuno, con il nostro concorso, non può forse soddisfare una razionalità concettuale non del tutto purificata dall’erotismo, ma può rassicurare sempre chi possiede una conoscenza eidetica (degli ideali) e, in ogni caso, chi con la purezza delle virtù rimedia alla non completa chiarezza delle ragioni.

venerdì 3 settembre 2010

La vita dell’immortalità


Il problema dell’immortalità dell’uomo non consiste nel chiedersi se alla fine dei suoi giorni cesserà la vita, ma nel sapere quale vita lo attende, ovverosia che cosa cesserà e, invece, che cosa continuerà...
Si tratta di sapere che cosa noi intendiamo per vita e per morte. È evidente che l’uomo compiuti i suoi anni muore e muore per sempre, ma è questa la morte che intendiamo, oppure c’è un’altra vita che noi non conosciamo del tutto per il solo fatto che non la viviamo ancora?
In effetti quando noi, ancora piccoli, abbandoniamo le favole moriamo ad un mondo immaginario e ci buttiamo in quello della realtà, viviamo una vita che le favole ci impedivano di sperimentare. Così, quando abbandoniamo il mondo dell’erotismo entriamo come amministratori corresponsabili e quasi comproprietari in quel mondo che è privo dei limiti dell’egoismo.
Allo stesso modo, quando perdiamo il possesso delle realtà e, con la morte fisica, anche di quella realtà che è il nostro corpo, ci liberiamo dai vincoli di una conoscenza condizionata e dipendente dalla sensibilità per sperimentare quella di un mondo diverso. È quel mondo nuovo, dove vale chi ama l’Amore per la realtà e non la realtà ricevuta e conosciuta, magari senza amore.
Questa è la vita vera e non quell’altra che conduciamo sulla terra e che ci sembra mancare in continuazione tanto è limitata alle sole cose che non durano in eterno.

La verità è semplice

La verità non è solo corrispondente, ma anche consenziente...
Qualche giorno fa ho scritto un appunto di filosofia intitolato: ‹Idee-verità per Platone›.
La verità è semplice e si può spiegare in due parole senza scrivere dei trattati ma, per arrivare alle due parole, almeno un articolo sarebbe necessario. Ora io dico qui le due parole, poi chi vuole mi può chiedere l’appunto un poco più esteso.
La parola ‹verità› richiama quella di ‹corrispondenza›.
‹Corrispondenza› è un termine che non si riferisce ad una ragione, ovverosia non è esplicativo o conveniente e nemmeno opportuno, ma indica un ‹ordine›. La verità non è tanto una risposta ragionata, ma soprattutto una risposta analoga che considera le realtà come simili e non le conosce solo come qualità fenomenologiche. La ragione è comunicativa e logica, l’ordine è consenziente e analogico, ovverosia consiste in una traccia che può benissimo servire alla ragione, ma che funge da ‹regola› del suo cammino logico. Se si ammette che la verità per essere tale deve essere insita in un ordine si capisce subito che non è estranea all’ambito della morale e non di pertinenza esclusiva della logica e, in questo senso, prevede l’intervento delle virtù infuse (vedi anche qui sotto: ‹Ordine, ragione, verità›).

mercoledì 25 agosto 2010

Ordine, ragione, verità


Che rapporto c’è tra ordine e ragione ai fini della conoscenza della verità?
Si può rispondere con un esempio.
Se io ho un libro per capire quel che c’è scritto devo leggere una pagina dopo un’altra, dal principio alla fine e non una o l’altra pagina a casaccio. L’ordine della lettura è necessario, ma il significato lo danno le pagine scritte e non la loro successione. Le realtà non sono tanto vere per quel che significano singolarmente isolate dal loro contesto, ma l’ordine non accresce la conoscenza solamente la permette. Del resto, ordine e processo cognitivo, pur complementari, non riescono da soli a dare la verità di una realtà: è solamente la relazione tra soggetto ed oggetto responsabile capace di costruire una conoscenza come ‹acquaintance› (conoscenza come ente cognitivo risultato dalla'unità tra conoscente e conosciuto).

Dio è Verità

Ho finito in questi giorni di scrivere un commento a proposito della verità come è illustrata da Platone con la teoria delle Idee.
Tra le altre cose pensavo:
Dio è Verità ma la verità cos’è?
La verità è un processo di precisazione, se si considera una manifestazione dell’‹Esistere›,
è una formalizzazione-memoria se è frutto dell’ordine dello ‹Spirito›,
infine,
è una entificazione (creazione) se è opera dell’‹Essere›.

Materia


Il materialismo è una dottrina filosofica, secondo cui l’intera realtà o è costituita da materia o deriva dalla materia. In base a questo assunto, la materia è la realtà ultima, mentre coscienza e conoscenza sarebbero solamente attività dell’uomo come espressione del funzionamento del suo corpo.
La materia, poi, sarebbe il fisico che la esperimenta e il fisico che è sperimentato, composto di innumerevoli parti sempre più frazionate e frazionabili.
In pratica il materialismo identifica pensiero, sentimenti e proprietà naturali, con forme diverse di cose materiali, ossia esclusivamente dotate di materia. Si tratta di fenomeni legati con la vita e, più precisamente, con la vita degli uomini che, sempre per i materialisti, possederebbero una materia più evoluta delle cose inanimate e degli stessi animali.
Il problema sta nel definire in che cosa consiste questa diversità delle due materie (quella animale e quella umana). È ovvio che tutti i pensieri dell’uomo seguono ad una conoscenza che inizia con una avvertenza sensibile della realtà e che ogni sentimento nasce insieme ad una sensazione, così come le proprietà naturali sono anche fisiche, ma tutto questo è solamente materiale? Quale è il termine per distinguere i due aspetti della realtà? Questa distinzione è solamente opportuna oppure reale?
In pratica, quando gli ‹spiritualisti› parlano di ‹amore› intendono qualcosa di diverso da ciò che ammettono i ‹materialisti›? Una risposta che affermi che non esiste una differenza, ma solo una supposizione diversa, non risolve il problema, ma aumenta la confusione.
Se ci si può accontentare di una ragione confusa non si può impedire a chi lo vuole di cercare una distinzione più chiara.
Anche e soprattutto in questo campo una ragione più chiara non può verificarsi se non con l’aiuto di una coscienza più pura, ovverosia liberata dall’erotismo.

lunedì 16 agosto 2010

La guerra non è una perfezione

Gli Spartani e gli Ateniesi
Qualche tempo fa alla televisione una decina di scienziati della storia, professori di università famose, hanno raccontato la guerra del Peloponneso tra il 431 e il 404 a.C. fra Atene e Sparta per l’egemonia sulla Grecia. Come al solito i contendenti erano convinti di avere il diritto di imporre i propri usi e costumi come se fossero i più giusti senza negare le convenienze pratiche e i vantaggi economici che ne sarebbero venuti se fossero riusciti ad imporli e, sempre come al solito si trattava di essere di destra o di sinistra, ovvero più liberali o più austeri
La guerra segnò il declino delle città stato perché, come in tutte le guerre, non vinsero i contendenti, ma vinse la discordia e perse la civiltà. Il racconto dei nostri professori aveva l’intenzione evidente di dimostrare la tesi che Sparta retta da un ordinamento meno liberale, ma più rigido, caratterizzato da un’etica intransigente animata da costumi irreprensibili finì malamente i suoi giorni senza lasciare traccia di sé, mentre Atene retta da una ideologia democratica più tollerante e più possibilista, pur ridotta in macerie lasciò, nei ruderi rimasti, le tracce di un’arte e di una civiltà imperitura.
Probabilmente gli Spartani con le loro virtù non avevano tempo di costruire i monumenti e, allo stesso modo, con le loro discussioni gli Ateniesi erano spinti a mettere in mostra la loro tecnica con altrettanta arte; quel che è meno evidente è a cosa sia potuto servire una tale disparità di costumi, a meno che qualcuno sostenga che la troppa moralità e la troppa liberalità servano solamente per incentivare le guerre. I nostri professori sostenevano come l’una e non l’altra delle due civiltà dovesse necessariamente prevalere, tanto è vero che, a parer loro, solo Atene aveva lasciato un ricordo di sé. Il fatto poi che tutte e due ebbero lo stesso destino di morte non è stato nemmeno preso in considerazione.
È sorprendente come chi è sicuro d’aver ragione escluda facilmente che di ragioni ce ne possano essere tante, al punto di non ammettere che ve ne siano altre più comprensive. Nessuno dei professori pensava che se ci sono due costumi, due convenienze e due ideologie non debbano necessariamente escludersi a vicenda senza nemmeno immaginare che possano concorrere alla ricerca, se non di una perfezione, almeno di un completamento reciproco al posto di eliminarsi a vicenda. Tutti pensano che il proprio parere è il migliore e per questo quasi tutti finiscono per farsi la guerra con l’intento di imporre quel che a loro sembra preferibile, mentre pochi avvertono che il ‹bene› sta nella pace che accorda gli sforzi non solo per raggiungerlo insieme, ma anche per definirlo, al posto di costringerlo entro limiti scelti arbitrariamente.
In una parola, è più facile trovare un uomo, o un partito, o una politica che si credono perfetti al punto di far la guerra per imporsi, al posto di cercare insieme il Dio della perfezione che è sempre più conveniente per gl’imperfetti, ma anche per i professori.

venerdì 6 agosto 2010

Amore possessivo e amore personale


Mi hanno chiesto un parere su un problema con un: “Dimmi qualcosa” che sono due parole semplici, ma che nascondono una certa preoccupazione. Noi ci preoccupiamo sempre per i nostri cari, perché li amiamo, come se fossero noi stessi, ma rischiamo con i nostri consigli e il nostro aiuto di togliere a loro la libertà e questo non è amore.
C’è un amore possessivo e uno personale.
Per capire la differenza bisogna rifarsi all’amore come virtù, che ha un duplice aspetto: di essere generosa e magnanima e nello stesso tempo giusta, ovverosia che se per un verso interviene, per un altro verso riconosce il proprio della persona amata e lo rispetta. Non si tratta quindi di indifferenza, ma di un amore unitivo che insieme è fiducioso e pieno di speranza; Tuttavia, potrebbe rimanere ancora qualche dubbio di non aver provveduto a sufficienza e di essersi tranquillizzati solo perché si sono scaricate sugli altri le proprie responsabilità, eppure non è così, se riconosciamo di non essere gli unici che possono amare; infatti, oltre a noi, si tratta di rivolgersi a Dio, per partecipare del suo amore. Così facendo diventiamo quasi onnipotenti come lui. Infatti, mentre noi interveniamo con il nostro consiglio, è già intervenuto egli stesso che vedendo la nostra preoccupazione la ha ascoltata come una preghiera. È questa unità con il Padre che ci rende tutti fratelli, sia che diamo un consiglio, sia che rispettiamo la responsabilità di chi ce lo ha chiesto. In questo senso l’amore diventa personale e non indifferente, ma nemmeno possessivo.

Depossessione e conoscenza


Perché senza depossessione non ci può essere una conoscenza obiettiva della realtà?
Semplicemente perché il possesso di una realtà è soggettivo e quindi impedisce un rapporto vero che viene invece compromesso sia dalla soddisfazione del possesso sia dalla paura della perdita di quella sostanza che la realtà rappresenta. Soddisfazione e paura impediscono non solo un rapporto puro con la realtà, ma anche poco chiaro e stendono un velo che nasconde la costruzione di una conoscenza (acquaintance) con l’esercizio della partecipazione.
Per comprendere questo assunto bisogna riferirsi al processo della conoscenza quando nel suo sviluppo diventa possessiva. Con una conoscenza iconica il bambino si impossessa delle apparenze della realtà con la quale si rapporta per giocare con essa. Con la conoscenza concettuale il fanciullo si impossessa del piacere che la realtà gli procura. Immagini e concetti si legano in questo modo al possesso prima delle apparenze figurative e poi delle qualità di una realtà e le deformano o le soggettivizzano, deformando così la stessa conoscenza. In questo modo la realtà non appare e non vale per quel che è, ma per quel possesso che l’uomo intrattiene con essa. Al contrario, quando la realtà non ha padroni diventa padrone di se stessa e tutti la rispettano per quel che è e non per il fatto che la posseggono.
È l’universalità del rapporto che garantisce l’obiettività della conoscenza. Questa universalità è possibile perché nasce dall’accordo anche solo tra due persone e non dal possesso di una sola persona, non tanto della realtà in se stessa, ma di quel tipo di rapporto che loro intrattengono con essa.
La possessione colora ed emoziona il rapporto, mentre l’accordo comune chiarisce e purifica il rapporto stesso permettendo alla realtà non solo di esistere, ma anche di essere quello che essa è. Il rapporto che nasce da un giudizio basato sulle virtù dello spirito e sulla partecipazione dell’essere induce l’esistere a considerare la realtà un bene e quindi a rispettarla come dono e non a rubarla per possederla. Quando si ama e si rispetta una realtà la si vede, per partecipazione e per quanto possibile, con gli occhi di chi la ha creata, così come era stata pensata in quel cielo che non è un iperuranio, ma un fuoco di amore per tutte le realtà, uomo compreso, riunite nell’accordo della verità e del bene.

Massime

7022
Non si nasce con la scienza infusa
ma si acquista con lo studio.
Si nasce invece con le virtù infuse
ma si perdono se si tralascia di esercitarle.
7023
Senza lavoro non vale la virtù né la ragione.
Senza fatica non funziona né testa né cuore.
7024
Se si cerca solo e sempre chi ha colpa
non si troverà mai chi ha ragione.
7025
Chi è esclusivamente impegnato a combattere il male
non troverà mai tempo per promuovere il bene.

Psicologismo - intellettualismo


Con il termine di psicologismo il più delle volte ci si riferisce ad una filosofia che invece è psicologia. La psicologia sarebbe una scienza che studia le tecniche delle buone relazioni tra persone, mentre non considera di proposito le ragioni e i sentimenti che reggono queste relazioni, sebbene questo assunto è più teorico che pratico. C’è anche una filosofia della psicologia che più propriamente consisterebbe nella morale, ma questo termine è alle volte usato dalla filosofia in un modo intellettualistico che, per l’appunto, vede tutto come psicologismo quel che riguarda la psicologia.

sabato 19 giugno 2010

L'umanità nel deserto


Riflessioni d'attualità
In diverse epoche, autori diversi hanno paragonato la storia dell'umanità al passaggio degli Ebrei nel deserto dall'Egitto alla terra promessa e probabilmente qualcuno lo ha fatto anche oggi: non è quindi niente di nuovo riritornare sull'argomento, ma io vorrei accennare a un significato forse non comune dei personaggi di questa storia. Mosè è stato certamente la guida dei suoi connazionali, ma non sempre compreso, alle volte contestato, eppure l'unico che ha portato avanti gli Ebrei sul loro cammino non solo materiale, ma anche di popolo in via di ritrovare la sua compagine e la sua identità morale. Anche per l'umanità di oggi qualcuno ha cercato un Mosè e qualcuno lo ha ritrovato nella cultura occidentale, qualcun altro stranamente lo ha identificato in una nazione guida, più concretamente altri ancora lo hanno visto nel Gesù di oggi che è incarnato nella sua chiesa, ma il Mosè della storia non sapeva parlare e il vero Padrone della storia gli affiancò una specie di ministro della propaganda in Aronne. L'Aronne di oggi potrebbe essere figurato nel politico di tutti i giorni e nella politica del nostro cosiddetto progresso e in effetti molti hanno più fiducia oggi nella politica che non nella religione. In ogni caso Aronne è stato indicato da Dio stesso, anche se scelto fu Mosè. Fin qui il paragone non fa una grinza, ma a rovinar il quadro compare la moglie di Aronne. È lei che induce lo stesso marito e forse la gente del loro seguito a sbarazzarsi di Mosè, perché Aronne possa prendere il suo posto, ma è anche lei a prendersi le conseguenze, perché si vede colpita da un giorno all'altro dalla lebbra che a quei tempi era segno di impurità. A questo punto ciascuno può cercare l'impurità che colpisce questa o quell'altra società o nazione attuale, ma non farà fatica a trovare una crisi economica o un qualche altro castigo che affligge il popolo che attraversa il deserto. In questa occasione, ancora una volta è Mosè il chiamato a risolvere il o i problemi e ancora una volta egli risanerà la moglie di Aronne, ma non subito, perché Dio stesso anche oggi dice: "Si è ribellata, ebbene sia pur guarita, ma non dall'oggi al domani, perché si accorga del male che ha fatto lei e chi si è fidato di lei". Bisogna forse riconsiderare le cose: Mosè era scelto, ma Aronne era necessario, persino la malattiua della moglie di Aronne era opportuna, per indurci a pensare come andavano le cose perlomeno allora.